Giancarlo Izzi: “L’esperienza della malattia è anche fonte di forza e speranza”

QUARANT'ANNI IN PEDIATRIA, IL PAPA' DELL'OSPDEDALE DEI BAMBINI VA IN PENSIONE

Una giornata speciale per un medico speciale, che ha dedicato gran parte della propria esistenza e carriera professionale ai più piccoli. Lo scorso 12 marzo, tutto il personale dell’Ospedale dei Bambini, inaugurato nel gennaio 2013, si è riunito per rendere un omaggio tanto commosso quanto sincero al suo primario, il dott. Giancarlo Izzi. Dopo quarant’anni di instancabile attività si prepara ad andare in pensione, ma cosa si prova durante l’ultima giornata di lavoro in una struttura che praticamente si è vista nascere e diventare un punto di riferimento anche lontano dai confini cittadini? 

Dopo tutti questi anni, è pronto a lasciare?

“Questa giornata per me rappresenta un abbandono e inevitabilmente lo vivo come fosse un lutto. Ci si sente un po’ fuori dal gruppo che si era creato con fatica e dedizione. Si cambia, diventando qualcos’altro da ciò che si era prima. La mia professione, purtroppo, è costellata di lutti: se non si è adeguatamente preparati si rischia di subire continui shock. Sono mesi che preparo il mio staff e -perché no- anche me stesso per questo momento. La fase finale degli eventi è una fase importante e delicatissima che va vissuta”.

In questa struttura però il vostro obiettivo non è forse quello di continuare a dare speranza?

“Quando annuncio ad una famiglia che il loro piccolo ha la leucemia, paradossalmente i genitori vivono una cesura maggiore di quella che prova il bambino. Non sono preparati a questa notizia, nessuno lo è. E si rimane come schiacciati dal dolore. Sembrano andare distrutti tutti i progetti della vita del piccolo, che d’improvviso si trasforma in un malato terminale, niente di più. A questo punto io e il mio staff interveniamo con le cure palliative: importante, oltre l’aspetto biologico, risulta anche essere quello psicologico e sociale. Bisogna proiettare la speranza attraverso l’attenzione alla persona, che al giorno d’oggi sembra aver perso valore”.

izziIn che modo, concretamente, assistete i vostri pazienti?

“Ho sempre detto al mio personale che bisogna mettersi in gioco, soprattutto per capire questi bambini. Capirli, quindi, non limitandoci a curarli attraverso la medicina. Oggi il 90% dei bimbi con la leucemia guarisce, così come circa il 78/80% di tutti i tumori pediatrici e questo vuole dire che la prospettiva della cura non può essere soltanto la somministrazione di farmaci. Nostro compito è quello di fare un pezzo di strada insieme a loro, continuare a farli crescere con i loro genitori, per far sì che il tempo trascorso nella struttura sia di aiuto anche alla parte che del bambino è ancora sana. Non bisogna dimenticare, quindi, la scuola, il gioco, le iniziative culturali. Ad esempio, una trentina dei nostri bambini andrà a visitare la Rocca di Fontanellato, per renderli coscienti che la vita, fuori di qui, continua. Questa è la filosofia che negli anni ’80, non senza sforzi, ho cercato di introdurre a Parma”.

Può dunque dire di aver raggiunto risultati un tempo soltanto sperati?

Posso dirlo sì e a supporto della mia dichiarazione, posso anche illustrarvi una ricerca divenuta poi tesi di laurea in psicologia all’Università di Bologna, nell’anno accademico 2013/2014, riguardante non il disagio, come tutti potrebbero aspettarsi, bensì il benessere psicologico dei nostri pazienti, che ci rende molto orgogliosi. I dati attestano come i nostri bambini anche durante la degenza riescano a vivere più felici di altri che godono di buona salute. Questo perché viene data loro la possibilità di crescere con uno scopo nella vita e tramite le relazioni positive che costruiscono con gli altri all’interno dell’ospedale, maturano anche a livello personale. Quindi noi, con il nostro modello assistenziale, con fatica e impegno, riusciamo a fare davvero la differenza durante i difficili giorni del ricovero. L’esperienza della malattia può diventare fonte di forza e non solo di sofferenza. Lottando, coltivando speranze per il proprio futuro”.

Una formazione professionale come la sua avrà avuto dei modelli ai quali ispirarsi: quali la hanno maggiormente condizionata?

“Il mio percorso ha avuto degli ‘impatti’ che mi hanno indirizzato verso la concreta realizzazione di tutto quello che oggi rappresenta questo ospedale. Gli incontri, però, da soli non bastano e richiedono molta convinzione, perseveranza e capacità di generare progetti. La prima persona che ha influenzato il mio percorso, quando ancora preparavo la tesi in pediatria, è il Dott. Botturini, grandissimo clinico che mi stimolava tantissimo mettendomi molto spesso in difficoltà. Mi ha insegnato che le mani sono uno strumento utilissimo, se sai usarle nel modo corretto naturalmente. In questo mondo si sta espandendo sempre più ‘l’intossicazione digitale’, si dipende troppo dalle macchine, fidandosi così sempre meno della nostra testa. Gli strumenti ci devono confermare qualcosa che abbiamo precedentemente ipotizzato, tramite la sensibilità; bisogna sempre fare al paziente le domande giuste, con parole e sintassi corrette così da avere risposte soddisfacenti ed utili. Il secondo personaggio è stata la Dott.sa Landucci Rubini, in cui vidi il grande rigore scientifico, una persona di elevatissimo valore morale, con una cultura pazzesca, aveva una conoscenza della scienza medica di quei tempi di grandissimo valore; è stata il secondo primario donna nella storia della pediatria italiana. Sempre attenta alla ricerca e alla risposta scientifica ma, dall’altro lato una profondissima umanità pur mantenendo una fortissima severità verso se stessa. Da lei ho imparato il rigore, l’attenzione per i passaggi scientifici che non possono essere salti nel vuoto ma, una sequenza collegata di ragionamenti. Bisogna avere puntigliosità per arrivare infine alla diagnosi, dandosi  tempi ragionevoli perché questa sia il più possibile attendibile. Il metodo della dottoressa mi ha aiutato a sostanziare le mie ipotesi sui dati di fatto. Oggi vedo drammaticamente, una crescita di potesi sparate. Io ho cercato, invece, di diventare un medico pediatra molto attento, senza mai banalizzare o generalizzare, basandomi solo su dati a sostegno delle mie iniziali ipotesi”.

Come si riesce a rapportare con pazienti così piccoli?

“Bisogna imparare direttamente il loro linguaggio, non posso di certo presentarmi ed usare termini scientifici. Devo chiedere al bambino di esprimersi con le sue parole e i suoi gesti e quindi osservarlo con attenzione. Ho iniziato ad apprendere da loro senza pretendere, come fanno molti adulti, di essere io ad insegnare qualcosa. E proprio dall’osservazione di questi bambini che ho ricavato la frase che ormai quasi mi perseguita: non tutto del bambino malato, è malato. Quando il medico riesce a capire che c’è una parte sana in ogni bambino, solo allora riuscirà a comprendere che non ci si può interessare strettamente soltanto alla parte che gli compete, quella della malattia. In questa struttura abbiamo cercato di espandere sempre di più la vita del bambino e di conseguenza ho imparato che in ospedale, luogo in cui esercito la mia professione, non ci sono patologie da curare, ci sono le persone. E da qui la creazione di un ambiente così gradevole per accogliere e far star bene il paziente”.

izzi7Infatti, in questa nuova struttura ogni elemento è a misura di bambino. Qual è la filosofia dell’Ospedale in questo senso?

“Il bambino ha davanti a sè una parete, sulla quale poter applicare i propri disegni; quando la mattina apre gli occhi e lo vede, può sentirsi in un ambiente familiare e facilmente riconoscibile. Infatti la maggior parte di loro la definisce come ‘la mia seconda casa’. Io, come medico, devo accettare di non avere gli strumenti tecnologici a portata di mano; se possono stare in un cassetto perché no? In questo senso tutte le attrezzature sono disposte in maniera tale da essere il meno invasive possibile nello spazio vitale del paziente. Anche una sciocchezza come avere tutte le pareti della degenza colorate con colori accesi e diversi dal canonico bianco, può essere motivo di bellezza. La vita del bambino è molto più articolata che la tecnica della sua malattia, per questo non deve sentirsi in ospedale. Un altro elemento che si può notare subito entrando in una delle stanze della nostra struttura sono le finestre con le vetrate che arrivano praticamente fino a terra: il bambino deve riuscire a vedere fuori senza dover aspettare l’adulto che lo sollevi, deve poter sentire se stesso come parte del mondo”.

Quali e quanti sacrifici ha sostenuto fino ad oggi, giorno del suo pensionamento?

“Io non parlerei di sacrifici ma di obiettivi. Se io so che per curare in modo adeguato quel bambino, atto professionale al 100%, ho bisogno che lui sia sorridente, disponibile a farsi visitare, che si fidi di me, devo riuscire a fargli accettare l’idea che potrebbe dover iniziare una terapia durante la quale star male. Come faccio a farglielo capire se io non riesco ad avere la sua totale fiducia? Bisogna riuscire ad avere la giusta attenzione alla sua persona e ai suoi desideri. Non mi sono sacrificato, ho solo cercato di essere una persona gradevole, in una struttura altrettanto gradevole e con uno staff che mi supportasse in questo grande meccanismo. L’impegno è finalizzato all’andare incontro al bambino, non per bontà, ma per essere bravi professionisti. Sono sottoposto costantemente al giudizi dei miei pazienti, che non posso deludere. Se il bambino riesce a fidarsi allora anche i genitori credono in me e si rema tutti nella stessa direzione. L’adattarmi alle esigenze del mio paziente non è mai stato un sacrificio. I veri sacrifici sono stati quelli di far capire agli amministratori che questo progetto poteva funzionare, ma per fortuna, come potete vedere, ci sono riuscito”.

di Greta Bisello e Francesca Ponchielli

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