Luca Ponzi: “Il giornalismo? Un mondo affascinante da rimettere in discussione”

SCENARI DELLA PROFESSIONE E CONSIGLI PER ASPIRANTI CRONISTI: IL CORRISPONDENTE RAI SI RACCONTA

Ponzi_PrAtGiornalista Rai, inviato del Tg3 per l’Emilia-Romagna, Luca Ponzi ha cominciato con questa professione per caso e ha continuato per passione. Dalle recensioni teatrali e dalle partite di pallavolo femminile seguite per la ‘Gazzetta di Parma’alla cronaca nera e la mafia, autore di ‘Mostri normali’ (Mursia) e ‘Cibo criminale’ (con Mara Monti, per Newton&Compton).

Perché fare il giornalista?

“Fare il giornalista serve ad aggiungere un pezzetto di verità al grande racconto della storia, per dirla in una forma un po’ retorica. Un tempo, un motivo per iniziare era perché si trattava di un mestiere ben pagato, che dava soddisfazione. Oggi si fa prima a spiegare perché non cominciare visto che è un lavoro sottopagato per colpa della stessa categoria, che ha svenduto la dignità del mestiere per mantenere alcuni privilegi o per averne altri. Oggi è davvero difficile spiegare perché fare il giornalista, soprattutto ad un giovane. E’ comunque un lavoro affascinante, permette ogni giorno di incontrare storie diverse e, se si mantiene quella curiosità ingenua che ognuno dovrebbe avere, il giornalismo permette quotidianamente di scoprire un pezzetto di mondo.”

Tu come hai iniziato?

“Ho iniziato per caso. Attorno ai 14 anni andai alla Marcia della Pace a Torino, organizzata da Don Ciotti, con il parroco della mia comunità e sul pullman di ritorno chiese: ‘Chi scrive qualcosa per il settimanale della diocesi di Fidenza?’. Io mi proposi volontario, anche se non avevo intenzione di fare questo mestiere, non era nelle mie idee. L’ho scritto, gli è piaciuto e mi ha chiesto di collaborare con lui. Io ho acconsentito anche se facevo tutt’altro: frequentavo Ragioneria. Ovviamente non pagavano, ma dato che ero appassionato di teatro di prosa mi facevo ricompensare per gli articoli con biglietti in loggione. Ho cominciato, quindi, con le recensioni degli spettacoli teatrali e scrivendo altre cose di cui c’era bisogno. Il parroco che dirigeva il settimanale un giorno mi ha portato in tipografia per correggere le bozze e ho cominciato ad appassionarmi sempre di più, ma non lo vedevo ancora come un mestiere. Quando mi sono diplomato, poi, il capopagina della ‘Gazzetta di Parma’ mi ha detto che aveva bisogno di un collaboratore. Quando mi ha chiesto ‘ti intendi di pallavolo femminile?’ io ho risposto ‘certo, è la mia passione’, ma in realtà non avevo mai visto una partita. Così ho iniziato a collaborare e ad essere pagato: è stato a quel punto che ho cominciato ad immaginare che potesse diventare la mia attività. E da lì non ho più smesso.”

C’è stato un momento in cui ti sei trovato in difficoltà?

“Sì, più volte. Ci sono stati momenti di grossa difficoltà emotiva perché quasi subito ho cominciato ad occuparmi di cronaca nera e questo voleva dire condividere dei dolori. Ad esempio, ricordo di aver avuto 24 o 25 anni quando ero in ospedale a seguire la storia di una coppia che doveva staccare la spina al figlio dopo un incidente stradale. Lui aveva all’incirca la mia età. Sono tornato in redazione quel giorno stando fisicamente male. Altre volte mi sono trovato in difficoltà a gestire determinate situazioni, come quando ho commesso degli errori: rimediare ad essi è sempre difficile e lo è anche ammettere di aver sbagliato. Poi ci sono state anche sconfitte professionali, momenti in cui non ho visto valorizzato il mio lavoro. Francamente, periodi di grande sconforto ce ne sono stati tanti, anche da giornalista professionista. Qualche volta mi è capitato di pensare che forse era meglio cambiare radicalmente lavoro. Però poi passano.”

Quando tratti di mafia qual è la difficoltà?

Capirne i linguaggi. Si tratta di un mondo che noi qui non conosciamo. Si può studiare dalle carte però quando si parla con gente che ci è nata dentro e che vive luca-ponzi-giornalista-e1380179968476nella mafia, cambiano completamente le prospettive, i punti di vista e il linguaggio. Non parlo solo del dialetto, è proprio un modo di comunicare. Alle volte c’è stata anche la paura fisica, ma non così spesso come si potrebbe pensare.”

Cosa ti piace di più e cosa ti piace di meno del tuo lavoro?

“Come dicevo, l’aspetto che mi piace di più del giornalismo è la possibilità di conoscere sempre nuove realtà, di approfondire e capire cosa c’è nel mondo. Quello che mi piace di meno è l’appiattimento totale della nostra categoria sul potere, la mancanza di rispetto per gli ascoltatori e per i lettori, e anche per noi stessi, per il nostro lavoro.”

Di chi è colpa di questa situazione?

Di noi giornalisti. Ci capita di raccontare tanti mondi: quello del potere, degli affari, di chi ha i soldi. Li sfioriamo e magari ci entriamo per qualche giorno, vedendo come stanno i potenti. La nostra ambizione è quella di entrare in quei mondi, mentre il nostro ruolo dovrebbe essere diverso, perchè dovremmo limitarci a raccontarli. Per entrarci spesso la categoria ha piegato la schiena e si è svenduta come una prostituta il cui corpo non vale più nulla, se non i 30 euro della singola prestazione. La mia non è un’accusa nei confronti di nessuno, è la realtà dei fatti. Anche tollerare che si paghino giovani, con la nostra stessa dignità, 3 euro al pezzo è orrendo.”

O che non vengono proprio pagati.

“Esatto. Gli editori hanno rubato per anni i contributi della legge sull’editoria e noi non abbiamo detto mai niente. Non si tratta solamente di fare un pezzo di accusa nei confronti dei politici, ormai è facile. Dovremmo guardare come stiamo facendo questo lavoro. Perché la gente non compra i giornali? Perché non ci trova niente di quello che le serve.

Le persone preferiscono informarsi dalla televisione?

“Televisione e giornali ormai sono la stessa cosa. C’è da dire che la televisione è gratis. I giornali sono belli, ma sono uno strumento vecchio, fuori dal mondo. Anche i giornali online, tranne alcune rare eccezioni, sono una trasposizione su altro supporto dello stesso modo di fare giornalismo. Oggi occorre ripensare al modo di comunicare perché stiamo comunicando nello stesso modo del 1800, non è cambiato nulla. Io ho cominciato nell’84 e sto facendo questo mestiere nello stesso modo. Si usa una parola diversa ma la sostanza è uguale. Io usavo la macchina da scrivere e ora uso il computer, ma il succo del discorso è identico. E’ il linguaggio che è cambiato e noi non ci siamo adeguati, non abbiamo imparato ad interagire con le nuove tecnologie.”

Servirebbe un aggiornamento.

“Servirebbe proprio un cambio di mentalità. Il giornalismo non sparirà però non è più capace di comunicare con la gente. Se uno non sa leggere è inutile che io gli sottoponga una pagina scritta, gli farò dei disegni. Noi oggi stiamo scrivendo per gente che non sa più leggere. Dovremmo avere l’umiltà di rimettere in discussione i nostri canoni per imparare ad interagire con i social media, ad esempio. Io uso Facebook, ho 1700 amici ma lo uso come cassa di risonanza per quando vado a fare una conferenza, o per quando vado a presentare un libro, o per quando ho pubblicato qualcosa che, secondo me, merita di avere un eco più ampia rispetto a quella che ha avuto con il giornale. Ma inserisco un contenuto che non è pensato per quello spazio. Abbiamo perseguito un adeguamento tecnologico ma non lessicale, non usiamo le potenzialità di internet.”

Ordine dei giornalisti: sì o no?

“E’ inutile, ormai, perchè non vigila su niente.”

Le scuole di giornalismo valgono i soldi che costano?

“No, non valgono i soldi che costano. Sono utili, i ragazzi escono molto preparati sul piano teorico ma come ogni mestiere, soprattutto questo che è Ponzi e Alfierifatto di relazioni, è chiaro che occorre una pratica diversa. Indubbiamente oggi, per come è formata la società, le scuole servono, ma sono molto care, non danno garanzie e non sono tutte ugualmente serie. E’ un mondo che personalmente conosco poco non avendo mai insegnato e ai miei tempi non esistevano, tuttavia risentono anche loro di tutto quello che è il problema del mondo dell’istruzione in Italia.”

Come si entra a lavorare in Rai?

“Per concorso. Speriamo che questa volta sia finalmente pulito. Per troppo tempo Rai è stata sinonimo di raccomandazione e questo non va bene. E’ una distorisione molto italiana, quella della raccomandazione, che in altri Paesi è molto più trasparente. A me è capitato di fare da garante per ragazzi che andavano in università americane e l’ho fatto con lettere di accredito, sulle quali poi sono state fatte le opportune verifiche. In Italia, invece, bisogna essere amici di qualcuno.”

Chi comanda in Rai?

“Il direttore generale, teoricamente. Oggi comanda ancora la politica: c’è un presidente e un consiglio di amministrazione che sono di nomina politica e il tutto è frutto di accordi politici.”

Se io dicessi ‘i giovani sono condannati a scappare all’estero’ sarebbe un’affermazione vera?

“Sì. Questo è un Paese vecchio, governato da vecchi che non ha prospettive di sviluppo perché per troppo tempo è rimasto bloccato da una cattiva politica frutto di una cattiva società.”

Quindi per noi giovani sarebbe meglio andare all’estero?

L’estero offre più possibilità, è più meritocaratico e competente. L’Italia è un Paese in recessione, ha fatto per troppi anni scelte dettate da altre logiche che non sono quelle dello sviluppo. Avevamo una scuola e un’università meravigliose che oggi sono un disatro. Avevamo una rete ferroviaria all’avanguardia e oggi sembra quella del terzo mondo. Avevamo un’industria che faceva innovazione copiata in tutto il mondo e oggi non l’abbiamo più. Abbiamo delle risorse straordinarie che non vengono sfruttate.”

Quando fai un’intervista come la prepari?

“Dipende dal tema. Le interviste che trattano di temi a me vicini, come la mafia e la criminalità, le preparo se devo parlare di un determinato episodio e allora mi informo, mentre interviste su temi che mi sono meno consueti le preparo leggendo. Credo che questo sia indispensabile. Un altro male della mia categoria è pensare di sapere tutto solo perché abbiamo il tesserino rosso da professionisti in tasca. Ma non esiste una persona che sappia tutto e comunque non ne sappiamo mai abbastanza: questa è la bellezza del nostro mestiere. Per me è ributtante quando un giornalista non è preparato: è un’offesa all’intervistato, agli ascoltatori e a tutti gli altri giornalisti. Nonostante io faccia questo mestiere da 31 anni ritengo che la preparazione sia fondamentale.”

Ci proviamo a fare i giornalisti o no?

“Potete provarci sapendo che non vivrete mai come i vostri insegnanti all’università o come me, non prenderete mai gli stessi stipendi.”

Si può vivere di giornalismo?

“Sì ma con stipendi molto più bassi, circa la metà di quello che prendiamo noi, che già non ti consentono di diventar ricco. E’ un mestiere che non si può far per denaro, ora meno che mai.”

di Silvia Moranduzzo

1 Commento su Luca Ponzi: “Il giornalismo? Un mondo affascinante da rimettere in discussione”

  1. Un’intervista coraggiosa, dove Luca Ponzi dice pane al pane…la verità è sempre preziosa! e lui ha dalla sua di avere un bel pò di esperienza alle spalle per cui le cose che afferma mi sembrano ancor più da prendere in considerazione.Condivido tutto quello che ha detto ma purtroppo anche lui non ha la bacchetta magica e le cose non cambieranno se non cambia la mentalità del singolo e della politica.

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