“In carcere per sempre”: detenuti in un film grazie ai ragazzi del Toschi

'FUGA D'AFFETTO': UN CORTOMETRAGGIO PER PARLARE DI ERGASTOLO OSTATIVO

“Mquadro_ara allora, che cos’è questo ostativo?”
Secca e precisa è la domanda che Giulia rivolge al padre sul finale di ‘Fuga d’Affetto’. Una domanda che aleggia e resta nell’aria, sospesa sulle teste degli spettatori che hanno appena assistito alla proiezione del corto. E’ lunedì 20 ottobre: nel cuore del quartiere Montanara, al cinema Edison d’essai, è stato appena proiettato il corto ‘Fuga d’Affetto‘, realizzato per la regia dei ragazzi di quarta e quinta dell’Istituto d’Arte Paolo Toschi con una sceneggiatura dei detenuti delle sezioni S1 e S3 del carcere di Parma.

Il corto racconta come l’assegnazione dell’ergastolo ostativo, ovvero quella forma di carcere a vita senza possibilità di permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a un condannato possa influire sulla vita della sua famiglia, in particolare la moglie e i due figli. Una condanna a morte da vivi. E’ uno spunto di riflessione, senza prendere posizioni, ma che solamente illustra mezz’ora di vita: quella di un carcerato a cui è assegnato l’ergastolo ostativo e delle reazioni dei familiari. L’impossibilità di arrendersi a un ‘fine pena mai’, la voglia di capire, la corsa contro il tempo e contro gli avvocati e poi quell’ultimo confronto fra un padre e una figlia, seduti per un’ultima volta uno di fronte all’altra, quella scena che si fa quadro e chiude sulle note della bellissima ‘Ti aspetterò’, composta proprio per il corto dal gruppo Kabarè Voltaire.  (Ascolta Ti aspetterò – Kabarè Voltaire ; #FugaDAffetto)

 

I responsabili del progetto per Toschi, Associazione Sirio e Associazione Culturale KinokiDIETRO LE QUINTE: IL PROGETTO – Il cortometraggio, finanziato dalla Fondazione Mario Tommasini con il Patrocinio della Provincia di Parma, è il risultato finale del laboratorio ‘Fare cinema in carcere…libera la bellezza’ e ha visto la collaborazione delle Associazioni Sirio e Kinoki, entrambe di Parma.
Per ottenere il risultato finale ci sono voluti diversi mesi: nella primavera del 2013 hanno avuto inizio alcuni seminari al carcere di via Burla e successivamente hanno avuto luogo le riprese in alcune zone note della città. “Inizialmente non si pensava ad un cortometraggio”, afferma Giuseppe La Pietra, responsabile del progetto, “in quanto nelle strutture carcerarie viene precluso l’accesso di strumenti cinematografici, ma con l’aiuto degli studenti del liceo Toschi, dei coordinatori Michele Gennari e Mario Ponzi e con la collaborazione di 30 detenuti di Alta sicurezza 1 e 3 il corto ha preso vita”. I detenuti hanno partecipato a lezioni e seminari sul linguaggio cinematografico e televisivo, fino a dare vita al tema e alla scrittura del cortometraggio. Gli studenti dell’Istituto Toschi hanno pensato poi di far uscire il progetto dal carcere fino alla realizzazione del corto, provvedendo a regia, interpretazione e riprese.

Il cortometraggio vuole indagare innanzitutto il rapporto dei detenuti con i propri familiari e si carica perciò di un forte valore emotivo; il desiderio è quello di dare voce a coloro che sono prima di tutto persone e poi carcerati. Viene mostrato inoltre come le famiglie dei detenuti percepiscono e vivono la reclusione e il modo in cui questo si ripercuote su di loro. I reclusi dei livelli 1 e 3 hanno la possibilità di passare poche ore al mese con i propri familiari:

Hanno visto i figli crescere a goccia a goccia e non hanno mai sanato i rapporti con chi è rimasto fuori”, spiega Mario Ponzi, presidente dell’associazione culturale Kinoki. “Ci occupiamo di individui che non possono accedere a misure alternative” spiega Giuseppe La Pietra, “e vogliamo rendere vivo il dialogo fra il carcere e il territorio di Parma, ridare una speranza, un’alternativa e dei sogni a uomini reclusi.”

La volontà è quella di riaprire il rapporto tra città e carcere, che viene sempre più visto dalle persone come un luogo lontano, isolato, sperduto.

GIUSTIZIA DA UN’INGIUSTIZIA: IL PARERE DI AGNESE MORO – “Quale giustizia può scaturire da un’ingiustizia? Con quale autorità ci permettiamo di dire che una persona non uscirà mai? Cosa hanno fatto di male i famigliari di chi è in carcere? Sono stati condannati a privarsi della presenza della persona cara?” Sono le domande che pone Agnese Moro, psicosocioterapeuta, figlia di Aldo Moro e da sempre attiva per i diritti degli ergastolani presente alla proiezione del documentario.

L’idea di giuAgnese Morostizia nasce dal pentimento sincero, dal voler vivere per restituire qualcosa alla comunità. Noi abbiamo una grande guida che è la Costituzione, nata dal dolore, dalle sofferenze, dalle speranze e dai sogni del popolo italiano. Il nostro compito è quello di ricostruire vite. La persona che commette il male va fermata, perchè deve essere fermata, ma quella persona deve tornare in libertà per essere re-immessa in società. Dobbiamo scegliere se essere un Paese che torna a quelle radici impegnative della nostra Costituzione o essere un Paese più povero che punta solo a dividersi fra ‘buoni’ e ‘cattivi’, fra quelli che si comportano bene e quelli che si comportano male, dove i cattivi li rinchiudiamo in quei luoghi, come il carcere, che sono non-luoghi. Dobbiamo decidere se vogliamo che una persona sia perduta per sempre o se vogliamo lanciare il messaggio che ogni persona sia preziosa e vada ricondotta alla vita.
L’ergastolo ostativo è peggio dell’ergastolo ‘normale’: l’ostativo è la pena di morte che in un paese civile non ci dovrebbe essere. E’ una scelta che ci allontana dal nostro essere persone che danno valore alla vita, anche a quella di chi ha preso strade sbagliate.”

La voce della Moro è forte: l’ergastolo non deve essere una vendetta e ogni pena deve servire a ri-educare la persona per farla tornare un membro attivo della nostra società, perchè “egli stesso vuole restituire qualcosa a quella società a cui qualcosa ha tolto comportandosi male.”

 

di Darika Fuochi, Paola Basanisi, Valentina Bocchi, Martina Pacini, Erica Salidu

 

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