Avalon: “Il lavoro come strumento riabilitativo”

I "MATTACCHIONI" DELLA FATTORIA DI VIGHEFFIO: VITE DI ORDINARIA FOLLIA

SagomaFattoria 'ar'Il presidente della cooperativa Avalon Michele Franzoni e l’operatrice Clara Arcari raccontano genesi, lavoro e storie che girano intorno alla Fattoria di Vigheffio e non solo.

Quando nasce Avalon e qual è la sua storia?

Michele: “Avalon nasce nel settembre del 1988 da un gruppo di ragazzi e ragazze provenienti dal Collettivo Spazi Sociali, che avevano come obiettivo la creazione di un centro sociale rivolto ai giovani.

A quel tempo Mario Tommasini era consigliere provinciale alla sanità e operava seguendo la filosofia di Franco Basaglia. Tommasini ha proposto a noi di gestire la Fattoria, che allora era sotto la struttura psichiatrica, e abbiamo cominciato con il bar e la mensa. Ci siamo impegnati moltissimo per crescere, tanto che l’allora direttore dell’ospedale psichiatrico, Bagnasco, si è accorto del nostro potenziale e ci ha chiamati a Colorno per iniziare quelle che sono state le nostre prime attività ludico-espressive: siamo stati la prima cooperativa ad accedere ad un ospedale psichiatrico. Il nostro motto era “Il lavoro come strumento riabilitativo” e non era così scontato all’epoca.”

Anche perché parliamo sempre di anni ’80-’90…

Michele: “Esatto. Da quel momento si è cominciato a capire che l’intervento sociale poteva avere un grande valore nei confronti della salute mentale, che allora veniva chiamata “malattia mentale”. Una volta entrati nell’ospedale psichiatrico abbiamo cominciato a gestire il bar e la tabaccheria che si trovavano al primo piano del manicomio, dove abbiamo fatto i primi inserimenti lavorativi cercando di perfezionare il nostro intervento nei confronti delle persone che soffrivano di disagio mentale.
Pensate che la legge che regolamenta le cooperative sociali a cui facciamo riferimento è del ’91 ma noi già affrontavamo tutte le attività che sono state regolamentate con la suddetta.
Con l’apertura degli ospedali psichiatrici (il manicomio di Colorno ha ufficialmente chiuso nel 1997), le persone che soffrivano di disturbi mentali si sono diffuse sul territorio quindi anche il nostro intervento ha dovuto modificarsi.”

Quindi quando chiude il manicomio di Colorno voi avete iniziato altre attività?

Michele: “Abbiamo iniziato a seguire le persone che uscivano da lì in altri contesti. Abbiamo lavorato anche con i detenuti attraverso alcuni progetti provinciali specifici, intorno agli anni ’90: ad esempio, il Parco Bizzozero è stato ripulito con loro. Piano piano queste persone con fragilità sociale trovavano il loro posto in un contesto lavorativo ma è inevitabile che vada di pari passo il contesto domiciliare e quello del tempo libero. Una cooperativa sociale come la nostra arriva a diventare anche un contenitore delle affettività perché tra utenti e tra utenti e volontari si instaurano dei legami anche di tipo personale.”

Quali altre attività avete svolto?

Michele: “Dal 1996 abbiamo cominciato con la gestione dei bagni pubblici, con la quale siamo arrivati anche a dare sette stipendi. Siamo convinti che attraverso il lavoro si possa riprendere in mano la propria vita ed uscire da un contesto di assistenza per diventare indipendenti, o quasi. Il nostro lavoro è una specie di rivoluzione perché va a modificare degli status fermi offrendo delle possibilità a persone che non avrebbero nulla a causa della velocità con cui va avanti la società.”

Quali sono i centri dove svolgete le vostre attività?

Clara: “Abbiamo un “gruppo appartamento” dal 2001 dove abitano sei “mattacchioni”. Questo termine lo abbiamo ereditato da Mario Tommasini, termine che sta nel mezzo tra la drammaticità della situazione e l’ironia con cui si deve affrontare la vita. Ci sono cinque operatori ventiquattr’ore al giorno e in questa struttura ci arricchiamo dell’aiuto del servizio civile. Lavoriamo in convenzione con il Dipartimento di Salute Mentale di Parma con dei progetti riabilitativi che sono una grande opportunità di recupero degli utenti.
Due operatori della cooperativa, con un progetto del Sert, sono entrati a lavorare in carcere con detenuti extracomunitari e tossicodipendenti che non potevano uscire a lavorare come gli altri perché non avevano il permesso di soggiorno e i requisiti che servono ai detenuti per usufruire dei permessi. Per tre anni abbiamo fatto questa attività con loro puntando sulla manualità.”

Collaborate anche con il Sert?

Michele: “Si, dal ’96. Nei bagni pubblici di cui parlavamo prima ci sono ragazzi del Sert. Ma non solo, infatti da tre anni abbiamo il canile “Lilli e il Vagabondo”, di cui abbiamo vinto la gestione dopo una gara pubblica e ci lavorano detenuti, arresti domiciliari e ragazzi del Sert. In questo caso si ha un valore aggiunto nell’interazione uomo-animale dove l’uomo parte svantaggiato nei confronti della società ma può riscattarsi attraverso il lavoro con gli animali.”

Dove si trova l’appartamento in cui vivono i ragazzi con disturbi?

Clara: “In via Solferino. Siamo stati per tanti anni in via Carducci ma ci hanno sfrattato perché dopo episodi piuttosto intensi da parte degli ospiti della casa, gli altri condomini si sono lamentati e ci hanno chiesto di andare via. Dove abbiamo ora l’appartamento abbiamo impiegato molto a farci accettare e ancora adesso se capita qualcosa danno subito la colpa a noi. In più, dimenticavo, noi abbiamo la squadra di calcio Vigheffio 180 (il cui nome deriva dalla legge Basaglia) iscritta ai campionati Uisp dove giocano studenti universitari e alcuni “mattacchioni.”

In cosa consistono i programmi riabilitativi?

Clara: “Il Dipartimento di salute mentale di Parma, il carcere e il servizio di tossicodipendenza ci segnala dei ragazzi tramite il loro medico psichiatra, gli infermieri e gli assistenti sociali come persone che hanno bisogno di un luogo dove lavorare: per noi il lavoro è la ricostruzione della dignità.”

Ci sono dei criteri specifici per la suddivisione degli utenti tra Fattoria, Serigrafia o altro?

Michele: “No, noi in accordo con le varie strutture decidiamo il contesto migliore dove farli lavorare, anche a seconda dei nostri bisogni di cooperativa.”

Cos’è il progetto ‘social market’?

Clara: “E’ un progetto finanziato dalla fondazione Cariparma e in collaborazione con il Consorzio Solidarietà Sociale di Parma a cui aderiamo dal 1993. La cooperativa sociale Eumeo distribuisce due volte a settimana a noi, tramite i grandi supermercati, merce in scadenza o mal confezionata che va a costituire delle borse della spesa (20 borse del valore di circa 25/30 euro ciascuna) che diamo a coloro che ne hanno bisogno.”

I vostri utenti vanno d’accordo tra di loro o ci sono stati episodi “particolari”?

Clara: “Ce ne sono stati tantissimi di episodi particolari, ovviamente. E’ un lavoro costante, qui è sempre un’incertezza, ci sono molte variabili: tutto quello che può andare bene oggi, domani può venire smontato. Comunque abbiamo anche molte gratificazioni perché qui nascono delle relazioni affettive: a volte, dopo il lavoro, i ragazzi si trovano per mangiare una pizza o passare il tempo libero assieme, esattamente come tutti gli altri. Negli anni è sempre più difficile perché la società sta tornando indietro a livello di integrazione perché le persone non capiscono il nostro lavoro, veniamo dati per scontati. Dove sarebbero questi ragazzi se non lavorassero qui? Per strada o sulle spalle del contribuente. Non è così scontato ma non ci si pensa.”

Quanti ragazzi avete che lavorano?

Michele: “In serigrafia abbiamo quindici persone tra assunti a tempo indeterminato con uno stipendio regolare e inserimenti lavorativi pagati a giornata. Ai bagni ne abbiamo quattro, in Fattoria ci sono nove utenti lavoranti pagati, al canile ne abbiamo dieci e una ragazza che abita nell’appartamento di via Solferino lavora in una pizzeria.”

Perché per voi è importante il reinserimento nella società di queste persone?

Clara: “Fondamentalmente pensiamo che il confine tra normalità e follia sia molto labile e chiunque di noi potrebbe aver bisogno di essere ricollocato un domani. E’ un valore etico e morale. Per me è scontato, secondo me questo lavoro ha un ritorno non in termini monetari ma ha una valenza di giustizia sociale. E’ una piccola rivoluzione. Fare finta che gli emarginati non esistano sarebbe irrealistico, è importante che anche gli ultimi abbiano la possibilità di dare il loro contributo alla società.”

Come si può far superare alla gente il pregiudizio?

Clara: “Già il fatto di avere dei clienti commerciali in serigrafia è importante, vuol dire che il servizio che offriamo è buono e alla gente non interessa con chi lavoriamo ma interessano i nostri prodotti. Questo è ricordare al cliente che i soldi che spende da noi vengono reinvestiti per il benessere degli utenti della nostra cooperativa.”

Le persone che lavorano con questi ragazzi sono formate per farlo?

Michele: “Noi non assumiamo di solito persone con particolari qualità curriculari perché secondo noi la salute mentale non ha delle regole, ci vuole tanta passione e bisogna farsi esperienza sul campo. Fino a quando non ci lavori puoi avere tutte le competenze che vuoi ma non sai cosa affronterai e senza la passione difficilmente vai avanti. Solo in appartamento abbiamo un’infermiera dell’Azienda Usl perché bisogna somministrare dei farmaci.”

Ci sono stati episodi che via hanno fatto prendere paura e pensare “Basta, io mollo tutto”?

Clara: “Assolutamente si. Recentemente un ragazzo schizofrenico ha tirato un pugno al vicepresidente di Avalon e gli ha causato il distacco della retina. Bisogna tenere presente i principi fondanti della cooperativa che sono quelli che ci fanno andare avanti e che ci sostengono nei momenti di difficoltà.”

Avete mai pensato di parlare di questi temi nelle scuole per far capire meglio questi problemi?

Clara: “Sarebbe bello ma tutto dipende dai calendari didattici e dalla disponibilità degli insegnanti. Per esempio questa estate in Fattoria sono venuti dei bambini della Albertelli Newton su iniziativa di un ex insegnante coinvolgendo la Pro.Ges: si sono formati sei gruppi e i bambini hanno svolto attività con i mattacchionidella Fattoria. E’ stata una giornata fantastica! E’ ovvio che se fin da piccoli abitui i bambini a non etichettare le persone avremo adulti consapevoli.”

 

di Giulia Berni e Silvia Moranduzzo

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