Epatite B: la speranza di cura è made in Parma

NUOVE POSSIBILITÀ PER DEBELLARE DEFINITIVAMENTE IL VIRUS NEI PAZIENTI CRONICI

Dasx_Fisicaro_Ferrari_Ottonello“Non ci fermiamo qua, stiamo ancora lavorando e abbiamo intenzione di andare avanti”. Parola di Paola Fisicaro, biologa del Maggiore e firmataria di una ricerca per la cura dell’epatite B che ha contraddistinto ancora una volta Parma come fiore all’occhiello del panorama italiano di ricerca e innovazione in campo medico. Coordinato da Carlo Ferrari, ordinario di malattie infettive all’Università di Parma e direttore della struttura complessa di malattie infettive ed epatologia, il progetto si è guadagnato un posto d’onore anche su Nature Medicine, tra le più prestigiose riviste in ambito biomedico, per le tecnologie d’avanguardia utilizzate e per i risultati ottenuti. Una vera svolta per il futuro dei pazienti affetti in forma cronica da questa malattia. Al progetto ha collaborato anche il gruppo di ricerca del professor Simone Ottonello del dipartimento di scienze chimiche, della vita e della sostenibilità ambientale.

CHE COS’È L’EPATITE B?  –  Con oltre 400 milioni di pazienti affetti in modo cronico, “l’epatite B è un’infezione di origine virale che colpisce il fegato ed è causata del virus Hbv” spiega Fisicaro. Si contrae tramite scambi di fluidi come “rapporti sessuali non protetti, siringhe riutilizzate o contatto di sangue infetto, ma anche attraverso la trasmissione verticale dalla madre al figlio durante il parto.” Nonostante non presenti evidenti sintomi nell’immediato, se non debolezza, febbre, dolore muscolare e addominale, l’epatite B può provocare enormi danni a lungo termine in tutto l’organismo, arrivando in alcuni casi a causare ittero, cirrosi o epatocarcinoma, ovvero il tumore del fegato. Bisogna però fare alcune distinzioni. “Esistono due tipi di epatite B – spiega infatti la biologa -: acuta e cronica. La prima può essere contratta in età adulta, ha una durata che non supera i sei mesi e negli adulti guarisce spontaneamente, mentre si cronicizza nei bambini piccoli; la seconda è quella che può durare anche tutta la vita perché le difese immunitarie non riescono a debellare completamente il virus.”

LA CURA ARRIVA DA PARMA – “È senza dubbio un progetto molto ambizioso, l’audacia sta nell’aver lavorato su cellule umane, a differenza del passato”, confida il professor Simone Ottonello. E questo appare uno tra gli aspetti più interessanti della ricerca, che ha saputo offrire una concreta speranza di cura, unendo conoscenze, anni di osservazioni e tecnologie innovative al servizio di tutti i pazienti affetti da epatitanalisi_epatite be B, per i quali prima esistevano solo farmaci che permettevano di tenere sotto controllo la malattia. Infatti, “in corso di infezione cronica, i linfociti, che in un paziente sano hanno funzioni antivirali, sono continuamente stimolati dalla presenza del virus e non riescono ad assolvere il loro compito, ovvero quello difendere l’organismo dall’infezione. Per questo – continua la biologa – perdono progressivamente le loro funzioni, esaurendosi”. Non sono mancante le difficoltà in fase di analisi e durante tutta la ricerca, che avrebbero potuto comprometterne l’esito: “Il più grosso limite al nostro lavoro è stato che i linfociti sono pochi ed è stato fondamentale il contributo dell’equipe del professor Ottonello per l’elaborazione di tecnologie sensibili che permettessero di poterli analizzare. Inoltre – aggiunge Fisicaro  – perdono la loro funzione, sono molto indeboliti e possono arrivare all’apoptosi, ovvero la morte. L’obiettivo principale è stato quello di capire cosa non funzionasse nei linfociti ‘esauriti’ dei pazienti affetti da epatite B cronica, al fine di intervenire per far riprendere vigore e funzionalità a quelli antivirali. “Isolando i linfociti nei pazienti cronici, abbiamo condotto uno studio di espressione dei geni, confrontandoli con quelli dei pazienti che guariscono.” Da qui la svolta nella ricerca grazie all’osservazione del mitocondrio, un organello cellulare deputato alla produzione di energia: “Ci siamo subito resi conto che era alterato ed indebolito nello svolgere le sue funzioni, così abbiamo deciso di testare in vitro sostanze e composti che agissero sul mitocondrio per cercare di incrementare le funzionalità e correggere tutti i difetti“. Con i risultati arrivano anche le prime soddisfazioni. “I test – sostiene l’esperta – si sono subito dimostrati efficaci nel far riprendere la funzionalità dei mitocondri e l’azione antivirale dei linfociti esauriti.” Non è solo una speranza, ma potrebbe essere una strategia per aiutare il sistema immunitario dei pazienti con infezione cronica a sconfiggere il virus per sempre.

L’IDEA DEL PROGETTO –  Il condizionale è d’obbligo per un lavoro di squadra duro e impegnativo che, da almeno 6 anni, ha coinvolto esperti del settore di Parma e non solo. Ad esempio “l’Università di Modena ha permesso di compiere analisi informatiche grazie a una tecnologia particolare come la Gsea (gene set enrichment analysis, ndr) e di tecnologie di visualizzazione dei mitocrondri in cellule isolate. Prima tra tutte però – aggiunge il professor Ottonello – figura l’istituto Iit dell’Università La Sapienza di Roma che ci ha permesso di raffinare le analisi di espressione genica grazie alla tecnologia nanostring.” Infine, oltre a numerosi centri e laboratori di Milano per poter confrontare un maggior numero di campioni, anche l’Università di Cambridge ha collaborato e supportato il complesso progetto di ricerca. “Studiare l’epatite cronica è difficile – ammette Paola Fisicaro-, abbiamo bisogno di molte cellule e, non solo è complesso isolarle, ma anche reclutare un buon campione di pazienti per prelievi di sangue che acconsentano a prendere parte allo studio.”epatite_laboratorio Un’altra difficoltà riguarda la necessità di elaborare tecnologie sensibili a livello di software per accurate analisi complesse dei geni in laboratorio. Come spiega infatti Simone Ottonello: “La piattaforma utilizzata è microrray. Grazie a specifici dispositivi, gli spot, i geni umani sono trasformati in piccoli frammenti depositati in punti specifici dei supporti su cui viene messo l’Rna espresso da una cellula; quando questo trova un partner, si lega in quel punto e si illumina in modo specifico perché marcato con coloranti fluorescenti.” Un lavoro tecnico molto delicato che, afferma ancora Ottonello, “ha consentito di effettuare analisi bioinformatiche con forti controlli statistici su masse di dati per definire quali e come fossero espressi i geni”. Il vero problema nell’epatite cronica è evidenziato da Paola Fisicaro: “Non esistono terapie in grado di far guarire i pazienti definitivamente, ma la maggioranza dei farmaci antivirali aiuta solo a tenere sotto controllo il virus. I farmaci – continua –  devono essere usati per tutta la vita e, se si sospende il trattamento, la malattia avanza: l’unica vera cura è scoprire nuove strategie per guarire ed eliminare il virus dall’organismo.”

“È UN RISULTATO IMPORTANTE, MA CÈ ANCORA MOLTO DA FARE” –  Entusiasmo a parte per l’obiettivo raggiunto, la concretezza torna ad avere il sopravvento perché, nonostante gli ottimi risultati ottenuti, il lavoro di quest’equipe d’eccellenza non finisce qui: “Vogliamo continuare a studiare altri aspetti correlati per capire se possiamo ottenere risultati migliori o abbiamo già raggiunto il massimo. L’organo bersaglio – aggiunge la dottoressa Fisicaro – è il fegato: tra i prossimi percorsi di ricerca che vogliamo intraprendere ci sono esperimenti sui linfociti isolati dal fegato, perché è molto più difficile ottenerli”. Anche per il professor Ottonello, i prossimi obiettivi dell’equipe sono chiari: “Questo è un punto di partenza importante, l’idea è che possa esistere un mix di molecole naturali o di natura biologica che faccia resuscitare cellule compromesse. Attraverso prove in vivo e studi clinici mirati, si potrebbero somministrare all’uomo compresse contenenti molecole senza controindicazioni, per poi realizzare un confronto e vedere i risultati emersi dopo qualche mese”. La certezza, però, come sostiene Paola Fisicaro, è che per raggiungere a queste risposte “ci vuole tempo, pazienza e tanto lavoro”, ma determinazione, lungimiranza e professionalità sicuramente non mancano.

di Francesca Bottarelli

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