Mauro Bergamasco: “Anche le sconfitte aiutano a crescere”

IL CAMPIONE DELLE ZEBRE A 360°: DALLE PRIME SGAMBATE COL PAPÀ FINO AI SUCCESSI CON LA NAZIONALE

Mauro BergamascoÈ la passione, la fame, la voglia ciò che fa di un atleta il migliore nella sua specialità. Mauro Bergamasco, dopo oltre 16 anni di attività agonistica passata sui campi di rugby, non hai mai perso quella grinta che lo spinge a cercare ogni giorni delle nuove sfide e continuare a giocare bene con le Zebre, la sua squadra attuale, per guadagnarsi la convocazione ai mondiali. Dal piccolo club del Selvazzano alla nazionale italiana, il flanker si racconta. A tu per tu con Mauro Bergamasco.

Com’è nata la passione per questo sport?

“Ho cominciato a giocare a 5 anni. Tutto è nato perché mio padre è un ex giocatore a livello internazionale e quando ha smesso, più o meno nel 1983, l’anno di nascita di mio fratello, ha iniziato ad allenare. E’ diventato  responsabile (quello che oggi si chiamerebbe direttore sportivo) di un piccolo club della provincia di Padova, il Selvazzano. Lì ho cominciato a correre sui campi e con il tempo la cosa si è evoluta”.

Chi è stato il tuo modello di riferimento?

“Per molti anni mio padre. Poi, quando si delineò il mio ruolo sul campo, verso i diciotto o diciannove anni, oltre a questa figura importante, il mio giocatore di riferimento è stato Neil Back. E c’è un perché. In molti sostenevano che non potevo giocare in terza linea perché ero troppo basso. Alla fine degli anni ’90 c’era la moda di avere terzini molto alti e quindi, essendo più basso della media, dicevano che non avrei mai potuto giocare in quel ruolo. Ma c’era un giocatore inglese molto forte, Neil Back, appunto, che era più basso di me e quindi ho pensato che se ce l’aveva fatta lui potevo farcela anche io”.

Tuo padre ha influenzato la tua carriera?

“Si, è un riferimento critico per quello che concerne il mio gioco e ancora oggi sono contento di ascoltare le sue critiche. Tendenzialmente è una persona che non regala niente a nessuno, perciò se gli scappa un ‘bene’, significa che tutto va davvero bene”.

Mauro Bergamasco2 Quando hai capito che il rugby sarebbe diventata la tua professione?

“Non c’è stato un momento particolare, l’ho capito progressivamente. Quando avevo tra i sedici e i diciotto anni il rugby non aveva l’eco mediatica che ha ora, c’era poca stampa, i giocatori non erano richiesti come adesso. Notavo di aver più bisogno di informazioni legate al gioco, chiedevo a me stesso sempre il meglio durante gli allenamenti. Da lì capii che per me il rugby stava diventando importante, che sarebbe potuta diventare la mia professione. Lo è diventata davvero, poi, nel ’98, quando ho cominciato a giocare in Nazionale. Però è comunque rimasta sempre una passione e un divertimento, perché per quanto ci possano essere i contratti, i soldi (di certo non sono paragonabili a quelli del calcio), questo è uno sport impegnativo dal punto di vista fisico. Le ‘mazzate’ le dai e le prendi, pertanto devono rimanere quella passione e quel divertimento legate a tutte le sfere del gioco. Quando ti svegli al mattino e pensi che devi allenarti, lo devi fare col sorriso, contento di quello che fai”.

Se non avessi fatto il rugbista?

“Avrei fatto il ballerino! È una domanda che mi sono posto spesso, perché capita che me lo chiedano e ogni volta rispondo con una battuta. Ho la fortuna di giocare a rugby, uno sport che raggruppa in campo 30 giocatori e 15 ruoli diversi. Pertanto è facile trovare il proprio posto in campo. È uno sport che va interpretato, oltre alla strategia e alla tecnica di squadra c’è altro, è un mondo. Proprio per questo credo che avrei potuto fare qualsiasi cosa. Probabilmente sarei rimasto nello sport: oltre al diploma di geometra, sono un ex studente Isef, ma non ho ancora concluso il mio percorso di studi, spero di farlo presto. Poi si vedrà”.

Come è cominciato il tuo rapporto con la Nazionale?

“Io giocavo come numero 10 nell’Under 21, mi rendevo disponibile ai ruoli di cui la squadra aveva bisogno e poi mi piaceva cambiare. Durante quel periodo, avevo diciotto anni, mi ha chiamato la Nazionale A, per partecipare a Italia – Argentina, a Viterbo. Girava voce che cinque giocatori di quella squadra, dopo la partita, sarebbero stati scelti per integrare il gruppo della Nazionale maggiore. Fui scelto tra quelli e da li cominciò tutto“.

Hai giocato anche in Francia, nello Stade Francais. Come viene vissuto il rugby ‘Oltralpe’ rispetto all’Italia?

“Va detto una cosa: la palla è sempre ovale. Cambiano i numeri di chi segue uno sport, ma la passione rimane sempre la stessa. Quando sono arrivato io in Francia, il rugby era già professionistico da 16 anni. Il professionismo ha bisogno di un periodo di rodaggio, non è detto che funzioni subito. Parma oggi sta creando il suo volume di appassionati, sebbene siamo in una fase di costruzione. Noi Zebre facciamo parte del territorio e facciamo sì che il territorio ci segua nelle partite casalinghe. La differenza tra le due concezioni è più dal punto di vista tecnico, tattico e delle preparazione atletica”.

Mauro Bergamasco3Perché in Italia il rugby non è così sentito? 

“Il problema non è tanto il rugby, ma la società stessa. In Italia lo sport nazionale non è nemmeno il calcio, ma è la polemica. Va detto che la critica in sé non è negativa, se fatta in modo costruttiva…ben venga. Un secondo problema è l’attaccamento ai colori, che in Italia non è così presente come in Francia: il francese è amante del proprio territorio e di conseguenza qualsiasi vittoria porti lustro, proveniente da qualsiasi sport, è accolta con entusiasmo. Noi siamo diffidenti. Le cose stanno comunque cambiando, sugli spalti si sente urlare ‘Forza Zebre!’ e c’è una presenza attiva, è un’altra cosa. Ci sono tante realtà come Rugby Parma, gli Amatori, Noceto, Colorno, Reggio Emilia. Da questo punto di vista la società sta facendo uno sforzo per far capire che le Zebre non sono una cosa in più, ma una squadra di tutti, per tutti e per Parma“.

È degli ultimi giorni la provocazione lanciata da Wayne Smith, ex coach All Blacks, il quale sostiene che bisogni cambiare le regole del rugby, aggiungendo la possibilità di un passaggio in avanti per azione. Cosa ne pensi?

“Wayne Smith l’ho conosciuto, in ogni caso lo precede la sua fama di allenatore e di trascinatore. Credo che abbia lanciato questa provocazione perché qualcuno prima l’ha lanciata a lui. Io e mio fratello Mirco abbiamo scritto un libro su questo, ‘Andare avanti guardando indietro’, assieme a Matteo Rampin, Ponte alle Grazie Edizioni. Abbiamo voluto descrivere la vita attraverso le metafore del rugby. Il titolo aveva più significati: il fatto di avanzare, passando la palla indietro è contronatura. Guardando indietro si osserva il proprio passato: mai dimenticare chi sei e da dove provieni per poter andare avanti ancora. Sono convinto di una cosa: per creare una storia, bisogna ascoltare quelli che sono venuti prima. Per crescere, un bambino, un adolescente, deve sapere quello che c’è stato prima di lui. Se non esiste una base in questo senso, non potrà crescere come individuo”.

Sei a Parma ormai da qualche anno. Ti piace?

“Si, è una bella città . Quando sono arrivato mi dissero di essere nella ‘piccola Parigi’. Io, che venivo proprio da Parigi, notavo alcune differenze. Vedevo l’arco, il fiume, ma non capivo. Vivendo poi di fronte al Collegio Maria Luigia ho capito col tempo i riferimenti storici. Attualmente abito in centro, trovo sia una città a misura d’uomo e ricca, per questo mi era stato detto fosse anche un po’ snob. E forse è davvero così. Ma se questo aspetto lo si prende col sorriso, si capisce che fa parte del colore della città. Io qui vivo bene“.

Ti capita di essere fermato per strada?

“Ciò che fa la differenza tra essere continuamente fermato per strada in modo pressante ed esserlo in forma minore è il dimostrarsi disponibili. Se le persone vedono disponibilità, non sentono il bisogno di assalirti, perché sanno che se ti salutano o ti fanno una domanda, riceveranno sempre risposta. Parma non cambia rispetto a un’altra città: se ti rendi disponibile non ci sono problemi“.

Guardando al futuro e al Sei Nazioni di febbraio, credi che si debba cambiare qualcosa rispetto all’anno scorso, dopo un torneo negativo?

“Credo che non ci siano cambiamenti radicali da fare piuttosto che serrare le truppe e ricordare ciò che abbiamo fatto finora. Abbiamo guadagnato una vittoria contro Samoa, abbiamo perso in maniera non proprio intelligente con l’Argentina e ci aspetta una battaglia importante contro il Sud Africa, a Padova. Comunque vada, c’è molto da trattenere da questo tour invernale. Nella mia carriera forse ho più perso che vinto. A volte ho imparato cose importanti dalle sconfitte. Avere la capacità di voltare pagina non significa dimenticare ciò che è successo prima, ma concentrarsi sul prossimo obiettivo. Noi come sportivi, se sbagliamo oggi, abbiamo la fortuna di avere l’opportunità di riprovarci la settimana dopo, mettendoci sempre alla prova. Il Sei Nazioni di quest’anno è uno step in più per capire chi siamo, dove siamo e dove vogliamo arrivare l’ottobre prossimo, al Mondiale. Non mi sento di dare particolari giudizi, perché non sono un mago”.


Mauro BergamascoMolti dicono che il Sei Nazioni nell’anno dei Mondiali è una competizione particolare
.

“Per me lo è ogni anno perché ogni anno è diverso dall’altro. E’ vero però che nell’anno del Mondiale le squadre si scoprono e non si scoprono, quindi non hai mai un reale avanzamento. Ogni squadra ha modi di prepararsi diversi: ci sono squadre che svolgono una preparazione di un certo tipo, altre di un altro e perfino alcune che non la fanno  per niente in base al tipo di campionato che giocano. Sicuramente sarà importante”.

Si legge che probabilmente il prossimo sarà il tuo ultimo Mondiale.

“Ovviamente, se ci sarò. Il mio obiettivo è di essere tra i trenta convocati e magari tra i quindici in campo. Tutto il resto non conta”.

Si avvicina il Natale. Quale regalo vorresti sotto l’albero?

“Se ci fossero le convocazioni per la Coppa del Mondo sarebbe perfetto. Dal rugby ho avuto tanto: ho avuto una carriera lunga e bella, con soddisfazioni e delusioni, ma nessun rimpianto. Rifarei tutto quello che ho fatto, magari meglio se ci fosse la possibilità. A parte gli scherzi, non saprei cosa chiedere. Adoro stare in famiglia e quindi il Natale sarebbe un momento utile per recuperare le energie necessarie per portare a termine questa stagione, alla fine della quale c’è un appuntamento importante per me”.

 

di Luisa Di Capua, Emanuele Maffi e Elisa Zini

1 Commento su Mauro Bergamasco: “Anche le sconfitte aiutano a crescere”

  1. ti seguo dai tuoi inizi e sono convittissima che tu sia uno dei piu’ validi e intelligenti giocatori di rugby da 20 anni a questa parte,la tua carica agonistica e’ pari alla tua umanita’con persone meno fortunate.i tuoi genitori non potevano avere miglior figlio,uomo,atleta.

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