Quella volta che mi hanno molestata

STORIE DI 'ORDINARIA' VIOLENZA: QUANDO CHI GIUDICA FA MALE DUE VOLTE

MolestieLasciatemi iniziare questo pezzo con una doverosa precisazione: stai tranquilla mamma, non sono io ad essere stata molestata.

Non sono io, eppure leggendo alcune delle migliaia di storie di ragazze e ragazzi che con l’hastag #quellavoltache stanno condividendo sui social il ricordo di una violenza o una molestia subite e mai denunciate, capisco che avrei potuto esserlo.  Capisco di essere stata fortunata perché il molestatore non è l’individuo inquietante con l’impermeabile e gli occhiali scuri che ci propinavano i vecchi film. Molto più spesso è l’uomo sconosciuto sulla metro o il conosciuto professore dell’università, la collega di lavoro, il vicino di casa, il passante al parco; insomma una persona come tante che potremmo incontrare ovunque, in un giorno come tanti.

Le molestie sessuali sono talmente diffuse che ormai le si dà quasi per scontate. Le ragazze sanno che in discoteca ci sarà il tizio di turno convinto di potergli palpare il sedere solo perché balla lì di fianco; quante volte in autobus o in metropolitana hanno sentito l’uomo dietro di loro stargli troppo, veramente troppo vicino. E sicuramente a tutte le donne sarà capitato di avvertire un forte imbarazzo nel passare davanti ad un gruppo di soli uomini, sentendosi osservate dalla testa ai piedi. Per non parlare poi di quando dal gruppo si levano fischi o commenti di troppo: l’imbarazzo per il loro modo di agire diventa disagio che cala su di sè, il passo si affretta e nella testa ci si ripete “Fa che restino seduti, fa che nessuno mi segua”.

Certo tutto fa più clamore se il molestatore non è uno sconosciuto ma un ricco produttore hollywoodiano che per anni ha abusato della sua posizione e del suo potere per convincere, o tentare di farlo, aspiranti attrici a scendere a compromessi. Tu dai qualcosa a me, io do qualcosa a te. Tu chiuditi dietro la porta della mia camera d’albergo, io ti apro quella degli Studios. Ed è stato proprio il caso di Harvey Weinstein, che per oltre vent’anni ha abusato di attrici, ma anche dipendenti, modelle, per un totale di quaranta giovani donne, a far partire sui social la campagna internazionale #MeToo, hashtag lanciato dall’attrice americana Alyssa Milano e diventato in Italia #quellavoltache, in solidarietà alle donne coinvolte nello scandalo e più in generale per dare voce a tutte le vittime di abusi e molestie.

In Italia le rivelazioni di Asia Argento, che ha dichiarato di essere stata violentata da Weinstein quando aveva 21 anni, si sono trasformate tristemente in un dibattito mediatico, infuocatosi sui social, per stabilire il grado di complicità delle vittime che non denunciano, in particolar modo di quelle donne a cui la molestia subita silenziosamente ha fruttato un avanzamento di carriera. Ma mentre l’opinione pubblica si divide tra chi esprime solidarietà e chi ha accusato Asia di aver tratto vantaggio dall’accaduto taciuto per vent’anni, ecco che paradossalmente sul banco degli imputati non c’è più il carnefice ma la vittima. Siamo arrivati al punto in cui più che condannare l’abuso è interessante scrutare come reagisce la vittima, giudicare il suo comportamento, valutare se anche lei ha le sue responsabilità. E da questo al “se vai in giro vestita così, te la cerchi” il passo è spaventosamente breve.

Ricordo perfettamente il giorno in cui una delle mie migliori amiche mi chiamò sconvolta: un tizio l’aveva seguita per strada mentre raggiungeva la fermata dell’autobus e ad un certo punto, abbassandosi i pantaloni, aveva cominciato a toccarsi guardandola. Lei quasi incredula, in un primo momento, era rimasta paralizzata, imbarazzata, impotente, poi era scappata via sperando che quel depravato non la seguisse. Riuscite ad immaginare cosa prova una ragazza in quei secondi infiniti? Riuscite a sentire il cuore che le batte in gola come volesse esplodere? La paura di quello che potrebbe accadere dopo? Credete che se a fare una cosa del genere non fosse stato uno squilibrato per strada ma un uomo in giacca e cravatta in un ufficio, allora la paura, il disagio, il disgusto sarebbe stati meno forti? Io non ci metterei la mano sul fuoco, ma quello che è grave è dare per assodato il contrario.

Al di là dei singoli contorni di una molestia, ciò che è inaccettabile è che s’inneschi il meccanismo per cui debbano essere le vittime a sentirsi in colpa per essersi messe in pericolo, per aver indossato il vestito piuttosto che il pantalone, per aver chiuso la porta di un ufficio, per aver fatto quella strada piuttosto che un’altra. E parlando di strade mi viene in mente che diversi amici si siano stupiti del fatto che io la notte rientri a casa a piedi, giudicandomi quasi un’incosciente. Viviamo in un mondo in cui le molestie, gli abusi e le aggressioni sono così frequenti che sono gli stessi uomini a pensare che una ragazza debba avere paura a tornare a casa sola.
E questo, più che farmi paura, mi fa proprio incazzare.

di Alessia Tavarone

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