Il mio inverno ai piedi dell’Himalaya

STORIA DI UN VIAGGIO, DI UN GRUPPO DI BAMBINI E DI UN POPOLO SULLA VETTA DEL MONDO

Ho parlato con un ragazzo anni fa che mi ha raccontato del Nepal.

“Senza la carta di credito dei miei genitori non avrei potuto aiutare nessuno là.”, mi aveva detto concludendo la descrizione del suo viaggio.

Poi c’è stato il terremoto a Kathmandu nell’aprile 2015, più di 8 000 morti.

Così ho deciso di partire. Non con una ONG, ma da sola. Ho contattato il direttore di un orfanotrofio e con la promessa che sarebbe venuto a prendermi all’arrivo, sono partita.

Credevo fermamente nella mia utilità nell’aiutare quei bambini, non sapevo che sarebbero stati quei bambini ad aiutare me.

E così inizia quella che per quattro mesi sarebbe stata la mia vita.

Il viaggio dura 20 ore. Ed eccomi in Nepal. Uno staterello incuneato tra l’India e la grande regione cinese del Tibet, un paese sconosciuto ai più, o almeno a tutti quelli che non siano appassionati di montagna, alpinismo e scalate. Il Nepal ospita sul suo territorio tutte le cime più alte del mondo.

L’arrivo è stato traumatico. Una di quelle esperienze da groppo alla gola e lacrime agli occhi, uno di quei momenti in cui ti chiedi: “Ma chi me l’ha fatto fare?”. Arrivare nel cuore dell’Asia, senza esserci mai stati, può essere sconvolgente: caos, traffico, rumori, colori, smog e soprattutto gente, gente a non finire. Sembra che tutta l’umanità sia concentrata lì.

Mi sono servite parecchie ore di decompressione per avere una parvenza di adattamento.

La mattina dopo, all’alba, salto su un autobus diretto a Pokhara, nel Nepal centrale, dove il direttore dell’orfanotrofio aveva promesso di attendermi. 200km in più di 12 ore, tre incidenti, una frana e molte soste. Il Nepal è attraversato da sole due strade asfaltate a una corsia. Il resto degli spostamenti avviene lungo strade sterrate e sabbiose con jeep caricate con il triplo della gente che potrebbero portare, oltre, naturalmente, a bestiame e beni di consumo (mobili compresi), oppure, ma solo per gli alpinisti che se lo possono permettere, su elicotteri o voli interni di dubbia sicurezza.

Veduta di Pokhara e dell’Annapurna dal tetto dell’orfanotrofio

Krishna Pokhrel, direttore dell’orfanotrofio The Love Company, mi aspetta nello spiazzo degli autobus di Pokhara. Un uomo robusto, solare e in forma rispetto all’età che sostiene di avere. Parla perfettamente inglese e sorride spesso, sforzandosi di pronunciare il mio nome correttamente. È accompagnato dalla moglie, che come tutte le donne qui, mostrano un atteggiamento riservato e discreto: un passo dietro il marito e la testa inchinata. Un atteggiamento riservato solo nello spazio pubblico, perché nel privato, sono loro le padrone di casa, pensano ad allevare i figli e tengono la contabilità. Anche se spesso si vedono, ai bordi delle strade, fare lavori pesantissimi, come spostare mattoni o sacchi di sabbia, mentre gli uomini stanno a dirigere i lavori.

Pokhara è una cittadina in via di sviluppo, per i turisti è un’ottima base per il trekking, qui vengono anche le coppie nepalesi in luna di miele. Sorge sulle rive di un lago, mi piacerebbe dire cristallino, ma purtroppo così non è, ai piedi della possente catena dell’Annapurna che raggiunge picchi di oltre 7 000 m. Fortunatamente non era stata pesantemente devastata dal terremoto come Kathmandu, anche se la gente, e soprattutto i bambini, portano ancora il ricordo delle forti scosse.

Krishna mi sistema in una stanza di un hotel vicino alla riva del lago. È una stanza fredda con i vetri che lasciano entrare spifferi da tutte le parti. Ci sono un paio di coperte, appena sufficienti per riparami dalle temperature notturne che scendono sotto i 5°C.

Ogni mattina Krishna mi ospita a casa sua per la colazione: un ottimo Chai (té fortemente speziato con latte bollito) che ricorderò come l’unica cosa capace di riscaldarmi in quei giorni. Nel mentre Krishna mi insegna un po’ di nepali e qualcosa sul suo Paese e la sua cultura. Mi chiede molto dell’Italia e dell’Europa in generale, ma non è nuovo a gente straniera, visto che accoglie, più o meno ogni mese, volontari e volontarie che vengono da tutto il mondo, sopratutto teenager australiani in anno sabbatico tra liceo e college.

Durante quelle colazioni imparo molto, anche se i racconti di Krishna devono essere filtrati, poiché per i nepalesi non c’è distinzione tra realtà e fantasia, tra scienza e leggenda. Credono allo Yeti e hanno partiti politici che si fondano su questa convinzione.

Imparo che i nepalesi sono un popolo di guerrieri, i gurkha, ancora oggi un “corpo speciale” dell’esercito indiano; fieri e orgogliosi non sono mai stati colonizzati da nessuna potenza occidentale. Questo ha permesso alla loro cultura di rimanere intatta. Il risvolto della medaglia è una completa e umiliante dipendenza dall’India. Tutti i prodotti qui sono made in India. Il Nepal ha risorse idriche immense, grazie ai ghiacciai che si trovano sull’Himalaya, però per avere liquidità di denaro, vende inspiegabilmente tutta l’elettricità all’India, che gliela rivende ad un prezzo maggiorato, senza tra l’altro una vera continuità. Ci sono spesso interruzioni di corrente fino a 18 ore consecutive durante l’inverno, ragione per cui i nepalesi sono tutti attrezzati con torce ricaricabili. E le ONG che operano qui cercano di rendere indipendenti le famiglie con piccoli pannelli solari. Anche per quanto riguarda gas e benzina i nepalesi dipendono dall’India, che spesso regala forniture di bombole e cisterne di carburante, in cambio di una silente intromissione nelle decisioni del governo del Paese.

Le regioni del sud, pianeggianti, interamente coltivate e doppiamente popolate rispetto al nord, vorrebbero maggior autonomia, se non addirittura l’annessione all’India. Nel periodo della mia permanenza, manifestanti e oppositori del governo centrale, avevano bloccato la frontiera con l’India chiedendo più autonomie. Nelle regioni del nord per parecchi mesi non arrivava cibo, acqua potabile, bombole di gas e carburante. La benzina veniva razionata, disponibile 3 giorni alla settimana, 4 litri a testa se ce n’era abbastanza. Altrimenti nulla. Lunghe file di mezzi lungo i bordi delle strade in attesa di qualche goccia di gasolio.

Stessa storia per le bombole del gas, che, mancando l’elettricità, qui la gente usa per cucinare e riscaldarsi. 2 km di persone in fila sul marciapiede con il loro vuoto a rendere, in attesa di una mezza bombola di gas, arrivata 82 giorni dopo il mio arrivo, e nemmeno abbastanza per tutti quanti. Donne che passavano la mattinata in fila, con la loro bombola, per 80 giorni, a cui i ragazzi davano il cambio nel pomeriggio, mentre i mariti le proteggevano di notte. Niente elettricità, niente riscaldamento, niente acqua calda. La gente cucinava su falò di legna. Ma, essendo il Nepal riserva naturale, tutte le foreste sono protette e non possono essere disboscate incautamente. La gente tagliava allora gli alberi sacri della città, i più antichi e grossi, sotto i quali riposavano i pellegrini o i monaci, accanto a statue del Buddha o di Ganesh vecchie di secoli. Quando andava bene. Quando andava male si bruciavano i rifiuti, pur di scaldarsi. E questo provocava fumate nere e un’aria praticamente irrespirabile. Che stonava non poco con le possenti vette innevate dell’Annapurna sullo sfondo.

L’orfanotrofio si trova nella periferia della città. Un palazzo azzurro a 3 piani, circondato da un cortile in cemento, con un piccolo orticello coltivato in un angolo.

I ragazzi che mi accolgono al mio arrivo

I bambini sono 16. Dai 3 ai 15 anni, età massima di permanenza in un orfanotrofio, dopo la quale il loro futuro è incerto. Non tutti sono orfani, alcuni sono stati lasciati da famiglie che non erano più in grado di mantenerli, soprattutto dopo il terremoto, e che vedono una volta l’anno; alcuni i genitori ce li hanno, ma magari sono alcolisti o tossicodipendenti. Hanno tratti distintivi delle mille tribù che popolano il Nepal. Alcuni assomigliano più agli indiani, altri alle popolazioni delle steppe della Mongolia. Tutti sorridono. L’arrivo di un volontario vuol dire regali, giochi e aiuto nei compiti. I miei, di compiti, non sono impegnativi: devo andare a prenderli in orfanotrofio la mattina, assicurarmi che abbiano mangiato, si siano vestiti (rigorosamente con le scarpe che si usano solo a scuola, per il resto della giornata, anche in pieno inverno, si stava a piedi nudi) e abbiano il materiale per la scuola. Accompagnarli e andarli a riprendere a lezione, aiutarli nei compiti il pomeriggio e nelle varie attività di gioco, svago o nelle faccende domestiche in casa. E ogni sera, dopo aver cenato con loro, sempre con riso bollito, brodo di lenticchie e verdure, metterli a letto, assicurandomi che si fossero lavati. Quando eravamo fortunati il contadino vicino ci regalava un po’ di latte del suo bufalo per i più piccoli.

A casa erano accuditi da una donna, da tutti chiamata solo “mamma”. Due di quei bambini erano veramente figli suoi. Dopo essere stata ripudiata dal marito, l’unico lavoro che  era riuscita a trovare era lì, a occuparsi di altri 14 ragazzi, garantendosi vitto, alloggio e la possibilità di far studiare i suoi figli.

La difficoltà più grande è stata riuscire a superare la barriera culturale che ci divideva. Dico culturale e non linguistica perché a scuola ogni materia è insegnata in inglese, così i bambini crescono bilingui già dall’asilo, e riuscivamo ad intenderci perfettamente.

Lungi da me voler imporre la mia “cultura occidentale” mi sono sforzata di entrare nei meccanismi dei loro usi e costumi. Mi sono adattata all’abbigliamento, al cibo, al modo di comportarmi, di parlare e di gesticolare. Ho imparato che non si tocca nessuno con i piedi, che si mangia con le mani e rigorosamente con la destra. Che non si tocca nessuno sulla testa e che per salutare bisogna unire la mani, portarle al corpo e dire Namasté. Ma non riuscivo a far capire a ragazzi, e soprattutto a Krishna, l’importanza di indossare i calzini durante l’inverno o di cercare di far bere più latte possibile, soprattutto ai bambini piccoli, che seguivano una dieta rigorosamente vegetariana come esige la religione hindu, già povera di proteine.

Quello che mi rimarrà più di tutto di questa esperienza sarà il sorriso di Saraswati, bambina di 6 anni, che ha salvato la sorellina di 3 dai maltrattamenti dei genitori ed è fuggita in cerca di una nuova vita, l’energia di Antim che riusciva a giocare con nulla e affrontava la paura del terremoto facendo ridere tutti gli altri bambini della casa, la forza di volontà di Bardan che, traumatizzato durante l’infanzia, non era in grado di parlare, ma si sforzava fino alle lacrime di farsi capire sia in nepali che in inglese e che ogni mattina mi disegnava il terzo occhio (tika) sulla fronte con della polvere rossa come benedizione, l’intelligenza e la voglia di riscatto di Susmita che è la bambina più intelligente della scuola e che sogna un futuro da programmatore informatico, che non sa se potrà avere.

Questi ragazzi hanno rimesso la mia vita in prospettiva.

In Nepal con loro ho patito la fame e il freddo, ma non avrei potuto stare in nessun altro posto.

Io, Susmita (11 anni) e Jamuna (14 anni)

 

di Camilla Turrini

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