Indiani, pakistani e bangalesi di Parma: Qui per restare (e per necessità)

STORIE DI COMUNITA' IN GRANDE CRESCITA MA DI CUI SI SA POCO

Buddha, i sikh e il loro Tempio d’Oro, la meditazione, il té. Parole che il nostro istinto immediatamente rimanda a fotografie di Paesi remoti e affascinanti, che tuttavia, in un’epoca in cui bastano quaranta ore per circumnavigare il pianeta, incontriamo sempre più di frequente anche nelle nostre città.
India, Pakistan, Bangladesh. Vicini di casa molto diversi tra loro, accomunati dalla massiccia migrazione verso l’Europa che ha iniziato ad aver luogo qualche decennio fa alla ricerca di tutto ciò che ogni uomo desidera: la possibilità di vivere dignitosamente.

Il fenomeno, naturalmente, interessa anche Parma. Mentre la comunità di bengalesi è tutto sommato abbastanza ristretta, infatti, in città risiedono ormai quasi quattromila indiani e oltre tremila pakistani: numeri considerevoli, che non possono non stuzzicare anche la curiosità di chi osserva il proprio Paese cambiare. E che queste persone arrivino qui di proposito, o che siano capitate per caso, di fatto alla fine scelgono di restare: l’Italia, Parma, rappresentano la stabilità che da un’altra parte non sono riusciti a trovare.

PARMA, CASA MA NON TROPPO – Lawrence, cassiere in un distributore di metano e bengalese di quarantuno anni, in Italia da più di venti, accoglie senza remore a casa sua per raccontare la sua storia: “Quando sono arrivato qua ho visto tante macchine ma poche persone, mentre in Bangladesh vedi gente dappertutto non appena esci di casa. È una cosa che ha impressionato molto sia me che mia moglie, se andaste a Dacca, la capitale del nostro Paese, pensereste che c’è sempre uno sciopero in corso… rispetto a quella confusione di Dacca, Parma è una città veramente molto tranquilla.” Disorientamento normale, tuttavia rispetto ai pakistani intervistati di lì a poco, l’integrazione di Lawrence è stata più semplice: “Io ho avuto un vantaggio perché già in Bangladesh avevo avuto l’opportunità di studiare italiano, quindi con la lingua ho avuto meno difficoltà di altri, anche se si tratta di una lingua molto difficile.”
Ulteriore punto d’incontro è la religione: Lawrence e Shilpi sono cristiani. Ma la cosa più importante per loro è il senso di serenità e di sicurezza che Parma è in grado di dare: “Come bengalese penso ogni giorno di tornare in Bangladesh, con il cuore, ma avrei sempre paura di quello che può succedere: la delinquenza è molto diffusa, i furti sono all’ordine del giorno e spesso anche i poliziotti commettono violenze e abusi per arricchirsi.”

Tuttavia, nonostante l’adattamento, è impossibile negare che molti aspetti della cultura occidentale non sono facili da accettare, come la frenesia, la necessità di guadagnare tanto mentre in Bangladesh si può accedere ad uno stile di vita dignitoso anche con un salario basso.
Differenza sostanziale è il rapporto tra i due sessi: “Da noi per esempio la società è divisa, gli uomini con gli uomini e le donne con le donne, soprattutto nelle scuole: è difficile vedere un uomo e una donna passeggiare insieme. Tuttavia il controllo non è esagerato, le donne non sono quasi mai obbligate a indossare il velo.”

Chi non ha avuto i vantaggi di Lawrence, spesso ne ha pagato le conseguenze. Nawaz, arrivato sette anni fa dal Pakistan senza conoscere la lingua, vive tuttora le sue difficoltà: “Le nostre culture sono diversissime, qui hai tanta libertà ma c’è anche molta diffidenza: la senti nei tuoi confronti e la provi verso gli altri. E se non parli la lingua è ancora peggio, rimani emarginato e tendi a rifugiarti tra gli altri pakistani, che qui sono molto numerosi e uniti. Ci vediamo per pregare Allah, andiamo al centro islamico, oppure facciamo qualcosa nel tempo libero. Ti senti meno solo, però dall’altro lato le possibilità di integrarsi diminuiscono”.

Anche Hamza e Saif, negozianti, qui da tre e due anni, vivono una situazione non facile, non solo per la lingua o le differenze culturali: “Non sopporto- dice Saif – il fatto che sono due anni che aspetto i documenti. Sono qui come rifugiato politico.” Tuttavia, nonostante le difficoltà, sono qui per restare, per una ragione molto semplice: “La mia famiglia – afferma Hamza – ha bisogno che io stia qui.  Siamo 6 in tutto ed io sono l’unico a lavorare. Non smetterò mai di ringraziare l’Italia per avermi accolto e rispetterò sempre gli italiani.

Pardeep e Amritpal, entrambi di origini indiane, hanno raggiunto i rispettivi padri, arrivando in Italia a 9 e 7 anni. Eppure, i loro percorsi sono stati completamente differenti.
Pardeep ha 29 anni, vive a Parma da venti e parlando con lui non diresti mai che, agli occhi dello Stato, non è ancora un cittadino Italiano. Dall’età di 14 anni pratica il rugby, dai 20 anni come professionista: “Il rugby mi ha dato modo di conoscere più ragazzi italiani, di vivere come vive un ragazzo italiano. Il lavoro comunque ha il ruolo più importante nella mia vita.”
Non rinnega le sue origini, anzi, ci tiene molto a precisare il suo credo sikh, semplicemente si sente più a suo agio nella mentalità e nella cultura occidentale, tanto da tornare in India solo in rare occasioni: ‘La cultura indiana mi è molto nota ovviamente, ma è qualcosa di lontano, in cui non mi riconosco, infatti non frequento compagnie indiane e ho sempre avuto compagne italiane: sono cresciuto qui, è questo il mio Paese.’
Molto diversa è la situazione di Amritpal. Se alla sua età, 18 anni, Pardeep aveva lasciato la casa paterna per vivere la sua vita, lontano dalle tradizioni indiane che seppur apprezzandole non condivideva, lui non se la sente di rinunciare alle sue origini: “A volte chiedo a mio padre ‘Perché sei venuto qui?’, ma poi capisco che lo ha fatto per darci un futuro migliore perché comunque la situazione in India era disperata. Quando mio padre è arrivato in Italia, le nostre condizioni di vita sono molto migliorate.”
Amritpal non ha difficoltà a conciliare la sua vita di studente parmigiano con le tradizioni della sua famiglia: si reca al tempio sikh tutte le domeniche e, quando riesce, partecipa alle feste religiose: “Proprio oggi (2 marzo, ndr) è la Festa dei Colori, la celebriamo anche noi nonostante sia indù”. Fervente adoratore dell’India e della sua cultura, gli chiediamo invece cosa non gli piaccia di Parma: “In Italia manca il rispetto per i genitori. Nella nostra cultura il rispetto per la famiglia è molto importante. Una cosa che mi dà molto fastidio è che spesso i miei amici parlino male dei loro genitori, mi chiedo spesso perché lo facciano ma per loro è una cosa normale, è il loro linguaggio.”

COMUNITÀ E ASSOCIAZIONI – Indiani, pakistani, bengalesi. Ognuna delle tre comunità ha scelto un modo particolare di affermare la propria voce all’interno del tessuto sociale parmigiano, ormai sempre più variopinto e ricco di sfumature.
Chi arriva dal Bangladesh, per esempio, non può far altro che puntare sull’aspetto privato: “A Parma siamo circa centocinquanta, troppo pochi per mettere insieme un’associazione – dice Lawrence – però il nostro numero sta crescendo molto rapidamente. Io al mio arrivo sono stato accolto dalla missione dei Laici Saveriani, ma perché ero venuto per studiare teologia. Non abbiamo niente che ci aiuti con la burocrazia, anche se pian piano le regole cominciano a essere un po’ più permissive. Anche a livello culturale non abbiamo niente che ci rappresenti, per esempio, quasi tutte le festività le celebriamo a casa nostra”.

Waleed, nato a Doaba e trasferitosi in Italia nel 2011, spiega che un’associazione pakistana in città esiste anche a livello ufficiale: “Il rappresentante, Suhal, è la voce di noi pakistani al Comune di Parma, ci affidiamo a lui per risolvere dei problemi o sbrigare dei documenti. Questa associazione è più un luogo di ritrovo che usiamo non come musulmani, ma prima di tutto come pakistani, perché alla fine siamo pakistani prima ancora di essere musulmani. Io comunque non partecipo spesso a questi incontri, noi pakistani siamo sempre in contatto tra di noi e quando c’è una notizia in un modo o nell’altro si viene a sapere”. Anche lui, come Nawaz, frequenta più assiduamente il centro islamico, questo sì un reale polo di aggregazione per i musulmani di Parma.

Per gli indiani sikh, che grazie alle donazioni ottenute dal padre di Ishwar sono riusciti, nel 2013, ad avere un tempio, ogni discorso sull’associazione è svincolato da altri fini che non siano la preghiera: “Per essere tutelati, ci rivolgiamo direttamente alle associazioni di stranieri, che ovviamente fanno un lavoro generale e non distinguono tra le diverse nazionalità. Possono aiutare noi come aiutano un nigeriano o un marocchino. Questo nostro nuovo punto di ritrovo è soltanto una chiesa in cui seguiamo i nostri riti, aprendoci anche agli italiani curiosi, e ci dedichiamo al mangiare insieme. La nostra tradizione prevede che in chiesa ci sia sempre del cibo per chi ha fame, perché negli antichi templi i nostri dèi offrivano da mangiare agli affamati”.

 

di Alessandro Caltabiano e Giulia Giunta

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