Dove malati mentali si diveniva: i ‘Volti dell’alienazione’ in mostra

110 DISEGNI DI SAMBONET RITRAGGONO UN VIAGGIO NELLE SOFFERENZE DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI

Una denuncia dal passato che richiama una realtà solo recentemente, e ancora non del tutto, superata. E’ questo il senso ultimo della mostra ‘I volti dell’alienazione’, che fino all’11 marzo a Palazzo Pigorini di Parma raccoglie i disegni che l’artista Roberto Sambonet realizzò nel manicomio di Juqueri, in Brasile. La mostra, che per la prima volta ha visto esposte le opere in diverse città italiane grazie ad un percorso itinerante, è volta a indagare e a sottolineare il complesso fenomeno della malattia mentale con l’obiettivo di evidenziare la dura realtà in cui molte, troppe persone sono state rinchiuse e maltrattate, nonché umiliate. Si tratta di un raccolta di ritratti, 40 disegni e 70 studi, che il pittore, designer e grafico italiano realizzò durante la sua permanenza nel manicomio situato a cinquanta chilometri dalla città di San Paolo, dove si recò tra il 1948 e ’53.
Curata da Franco Corleone e Ivan Novelli e promossa dalla Società della Ragione Onlusin collaborazione con l’Archivio Roberto Sambonet e StopOPG, con il patrocinio dell’Ausl di Parma e il patrocinio e la collaborazione dell’Assessorato alla cultura del Comune di Parma, la mostra testimonia un impegno ben preciso. “L’idea – spiega il curatore Ivan Novelli  è nata nel 2014 nell’ambito della campagna sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. La Società della Ragione, occupandosi principalmente di tematiche inerenti ai diritti civili, alla giustizia e alla libertà, decise di incentivare la proposta culturale relativa ai disegni di Sambonet, che non erano mai stati esposti prima d’allora. La prima tappa della mostra ebbe luogo a Milano, alla Fabbrica del Vapore, a cui seguirono Firenze e poi Roma. Visto lo straordinario successo, si scelse di proseguire, arrivando a toccare tredici diverse destinazioni, di cui Parma dovrebbe rappresentare l’ultima”.

DOVE MALATI DI MENTE SI DIVENIVA – Durante la permanenza nel manicomio, l’incontro con i 15.000 internati e l’amicizia che Sambonet strinse con il direttore dell’ospedale, Edu Machado Gomes, lo spinsero non solo ad approfondire, ma anche e soprattutto a testimoniare e denunciare quelli che erano l’orrore e Risultati immagini per mostra sambonet della pazziaputredine di quel luogo. Attraverso la sua opera, Sambonet non fa altro che anticipare quello che sarà il lavoro, nonché l’impegno di una vita, di Franco Basaglia, psichiatra di spicco che tra gli anni ’60 e ’70 inizierà a gettare le basi per quella che diventerà una vera e propria rivoluzione all’interno della psichiatria in Italia, introducendo il modello della “comunità terapeutica”. “Il mio amico Goffman – scrive Basaglia – mi diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo, perché la scena e le quinte non cambiano mai. Si troverà sempre col suo schizofrenico, col suo infermiere, col suo assistente o col suo direttore”. Con queste parole lo psichiatra (da cui prenderà il nome la Legge Bisaglia sui trattamenti sanitari volontari e obbligatori) racconta dell’orrore, dell’immutabilità propria di quegli “ergastoli bianchi” con cui ogni giorno, ogni minuto, gli internati erano tenuti a confrontarsi. Spazi vuoti, freddi, muri bianchi, porte blindate, ogni cosa portava a pensare ad una prigione, se non a qualcosa di peggio. Erano i cosiddetti “luoghi dell’assenza”, come li definisce Peppe Dell’Acqua, direttore dei servizi psichiatrici di Trieste, lì dove il tempo non esisteva, dove la propria identità, i propri diritti, la propria dignità di persona erano negati e non rimaneva altro che la malattia. Questi ‘malati’ oltre che la violenza fisica in diverse occasioni, erano costretti a subire, in ogni momento, l’impassibilità e l’indifferenza delle istituzioni alle quali erano completamente soggiogati e sottomessi. “Costretti in questi luoghi – scrive Dell’Acqua – gli internati, ridimensionano il loro sentire, introiettano le regole dell’istituto, interrompono il loro dialogo col tempo. Diventano, loro malgrado, ciò che noi conteniamo nella categoria del ‘malato di mente’, del ‘malato pericoloso’. La continuità dell’esistenza, l’estensione lineare della storia personale subisce minacce, attentati e fratture crudeli. Le persone per sopravvivere, devono accettare quell’unica e piatta identità di malato di mente”.

Risultati immagini per volume della pazzia 1977L’ARTE COME UMANA PARTECIPAZIONE ALLA SOFFERENZA – A questa stessa visione  negativa dei manicomi di allora si rifà, il titolo della mostra di Sambonet, particolarmente significativo in quanto evoca l”alienazione” non come effetto dei disturbi psichici, ma piuttosto in relazione alle condizioni, spietate e inesorabili, di quei luoghi, tali da condurre gli internati alla completa fuga da sé e rinuncia al proprio io, al totale smarrimento, con conseguente rifugio nella malattia. La mostra diventa così un appello all’umanità, un richiamo all’attenzione dei cittadini, un messaggio che possa contribuire alla definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, prevista inizialmente nel febbraio 2012 e poi ottenuta il 31 marzo del 2015, a causa della sua continua posticipazione. “Durante quegli anni di intensa attività artistica – ci racconta Novelli – Sambonet trascorse sei mesi all’interno dell’ospedale. Non ci sono particolari motivazioni che lo spinsero a frequentare quell’ambiente, se non l’amicizia allacciata con il direttore, ma le osservazioni che poté fare, le immagini che vide, le sofferenze e il dolore di cui ebbe esperienza diretta mediante quelle povere persone, lo segnarono in modo molto particolare. Il suo compito era semplice e chiaro: trasmettere la violenza, l’inumanità, la negazione della soggettività propria di quel luogo, cogliendone l’essenziale”. E’ nel 1952, anno in cui l’artista ottenne il permesso di visitare i reparti dell’ospedale, che comincia a prendere forma la sua opera; disegni eseguiti a china o a matita, ritratti di volti alienati e vuoti, talvolta persino informi.

“Dopo l’iniziale sensazione di disagio – racconta Elisa Camesasca dell’Archivio Roberto Sambonet  – l’artista comprende che in quel luogo alienante gli è offerta la rara possibilità di poter ritrarre dei modelli d’arte privi di filtri, ovvero la pura essenza dell’individuo. Allo stesso tempo l’inquietudine sorta per l’avvertimento di un misterioso legame tra il compito dell’arte e il mondo della follia, porta Sambonet a realizzare un ciclo di disegni a china e a matita di disarmante, anche se solo apparente, semplicità”. L’artista rivela, in virtù della sua attitudine, non solo le sembianze, ma soprattutto le emozioni proprie di quegli individui, obbligati a vivere in condizioni tutt’altro che normali e molto lontane da quella che è l’umanità. Occhi strabici, spesso troppo provati per rimanere aperti, nasi deformi o troppo grandi, bocca quasi cucita, forse a rappresentare il fatto che parlare ed esprimersi non era consentito e nemmeno contemplato. Ma non solo. Accanto alle immagini appena citate, non mancano uomini legati distesi, raffigurati in uno dei momenti di massima violenza dei trattamenti, bocche spalancate che lanciano grida di dolore, volti da cui traspaiono unicamente sentimenti ostili, quali la desolazione e la rassegnazione.

A prevalere nei disegni sono il bianco e il nero, il primo utilizzato per lo sfondo e talvolta sul volto, forse per mettere in risalto quelle che sono la negazione d’identità, l’assenza e la freddezza, mentre col nero l’artista intende sottolineare malformazioni, segni presenti sul viso di uomini in preda al dolore.
“Il disegno – prosegue Camesasca – completamente svuotato da lirismi e intellettualismi e ora divenuto essenziale, scarno e costruito con pochi precisi tratti, si trasforma in strumento privilegiato di indagine e conoscenza dell’essere umano, attraverso cui la ‘carica espressionista che rileva il peso fisico e l’abbandono psicologico dei corpi abbia una semplificazione formale, strutturale, che si rifà a qualcosa di costruttivo’ “.
Da questi ritratti, che Sambonet riproduce dal vivo, traspare non solo una straordinaria sensibilità, ma anche un desiderio di mostrare, di denunciare quanto egli aveva potuto vedere, di rivelare e divulgare le brutture e le ostilità a cui erano esposti i suoi soggetti, in prospettiva di una conoscenza critica che all’epoca mancava completamente. Bisognerà, infatti, aspettare qualche anno prima che anche le ricerche del sociologo canadese Goffman e dello storico Foucault prendano forma. Quello delineato da Sambonet rappresenta, riprendendo le parole del curatore Novelli, “una sorta di viaggio di umana partecipazione, uno scavo nelle pieghe della malattia e della sofferenza“. Viaggio che l’artista riesce a riprendere ed a raffigurare con una delicatezza e un’essenzialità dirompenti. I disegni, raffigurati nella loro semplicità, riproducono fedelmente la realtà ma non si limitano a questo. L’intensità, infatti, adoperata, nonché l’immedesimazione e la solidarietà che l’artista fa trapelare, portano Sambonet ad andare oltre, al di là delle caratteristiche fisiche e delle informità, per rivelare paure, pensieri, turbamenti degli internati. Interessante è notare come nel volume ‘Della Pazzia‘, pubblicato a Milano nel 1977, accanto ai ritratti oggi esposti in mostra l’artista ponga alcuni testi tratti da opere di importanti autori che nel corso della loro vita si erano occupati del tema della malattia; tra questi ricordiamo Allen Ginsberg, Friedrich Holderlin, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Edgar Allan Poe, William Shakespeare, Voltaire. L’esperienza di Juqueri rappresentò un momento fondamentale nella vita di Sambonet, sia dal punto di vista artistico che umano. Quel momento cambiò, infatti, tantissimo il suo modo di intendere e di fare arte, avviando una completa trasformazione in tutte le opere che verranno realizzate in seguito. Ma non ci si può fermare a questo. Il lavoro dell’artista ha anticipato e aperto la strada ad una denuncia e ad una rivoluzione sociale non indifferente. Un appello, tuttora attuale, di richiamo ad una realtà che ancora oggi non è stata del tutto superata nella concezione di molti.

 

di Nicole Bianchi

1 Commento su Dove malati mentali si diveniva: i ‘Volti dell’alienazione’ in mostra

  1. Bellissimo articolo, articolato e con molti spunti di riflessione.

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