Quella volta che scoprimmo coi nostri occhi un lager italiano

OSPITI DEL VIAGGIO DELLA MEMORIA DELLA SPI CGIL PARMA

Come ci si prepara ad un ‘Viaggio della memoria’? La sveglia non è ancora suonata e io sono qui che l’aspetto con questa domanda nella testa. Trieste è una città che mi affascina da sempre per il suo essere stata la porta d’ingresso della modernità per la nostra cultura, e ora mi ritrovo a vederla per la prima volta partendo da un campo di concentramento nazista.

Arrivo nel luogo scelto per il raduno con una buona mezz’ora di anticipo, attendendo l’arrivo di Yara per non fare da solo la prima conoscenza del gruppo di pensionati della Spi Cgil di Parma che ci ha invitati per provare a raccontare la loro esperienza. Il ritardo della mia collega, però, mi obbliga a uscire allo scoperto e a farmi vedere da quelli che saranno i miei compagni di viaggio. “Da chi devo farmi scannerizzare?” chiedo, tentando una battuta mal riuscita. “Dal segretario!” Mi viene risposto. Alto circa 1.90, ex granatiere, barbetta e occhiali, Paolo Bertoletti è il segretario generale del sindacato, e vedendolo non si fatica a capire perché. La mia prima conversazione con lui è il cuore di quello che sarà il nostro viaggio: “Il nostro intento è poter essere testimoni del passato – mi dice -, salvaguardarne la memoria e provare a raccontare”. Non credo ci sia premessa migliore di questa.

Superando una iniziale timidezza, ho provato a stringere amicizia con qualcuno dei nostri compagni di viaggio, scoprendo che la distanza generazionale che apparentemente ci separa non è poi così netta. Così chiacchierando e provando a raccontarci, le nostre quattro ore di viaggio sono volate via in men che non si dica, e ci siamo ritrovati a Trieste. Strana, multiforme, eterogenea: la città non mi sembra nemmeno Italia.

Arrivati in centro, raccogliamo il prezioso narratore della nostra giornata, Paola Alessandra Alzetta, la guida che ci accompagnerà a visitare la Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento e sterminio del territorio italiano. Una macchia nerissima nella nostra recente storia.

LA RISIERA DI SAN SABBA – La prima cosa che mi stupisce è dove questo lager nazista è collocato: non so dove sia il centro, ma non mi pare chissà quanto distante di qui. L’impatto col luogo è, se possibile, ancora peggio: “È grigio” – mi dico (porterò sempre con me la banalità di questa considerazione). L’ingresso alla Risiera è dato da un lungo corridoio, perennemente in penombra, ai cui lati si ergono altissime mura dello tesso colore della mia impressione, che termina in una specie di tunnel sotto un’alta torre. Vedere i miei compagni di viaggio percorrere in fila questa stretta strada non può non farmi pensare a tutti i film che raccontano l’Olocausto che ho visto durante tutte le ‘Giornate della memoria’. Come se bastasse un giorno all’anno per ricordare un genocidio, vite spezzate e corpi devitalizzati.

Corridoio d’ingresso della Risiera di San Sabba

Il corridoio termina nell’anticamera del cortile, un posto buio che si percorre in qualche secondo. È dopo che si è costretti a fermarsi.

Il cortile è immenso, grigio anch’esso ma di un grigio ancora più grigio. Il vero padrone del luogo mi pare il silenzio. Ampio, dalle mura altissime e sovrastato da un’alta torre che scoprirò poi essere il forno crematorio, il cortile del lager è il posto dove erano situate le camere a gas. Utilizzata inizialmente dai nazisti come campo di detenzione di polizia, la guida ci spiega che l’utilità maggiore della Risiera era data dalla sua collocazione geografica, rappresentando un punto di passaggio per i detenuti che dovevano essere trasportati nei lager maggiori di Auschwitz e Birkenau. Solo successivamente la morte è arrivata ad abitare questo luogo, quando è diventato anche un campo di sterminio.

A segnare la storia della Risiera sono stati in gran parte i detenuti politici, dissidenti e partigiani che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, venivano catturati dalle pattuglie naziste nelle campagne vicine alla città. L’assordante silenzio, quasi tangibile nell’aria come una presenza eterea, è interrotto ogni tanto dal cinguettio di qualche uccelletto, effetto che amplifica il rimbombo di quel nulla più assoluto. I miei compagni di viaggio ascoltano assorti la spiegazione che viene loro data, ma io non riesco a non perdermi, allontanandomi qualche metro dal gruppo e concentrandomi su quel silenzio grigio. Sono stati attimi piuttosto lunghi.

Dopo qualche minuto che avrebbe potuto anche essere un’eternità, il gruppo si sposta all’interno della Risiera, nella sala che è stata riadattata a museo del campo di concentramento.

IL MUSEO – Abbandonando a fatica il nulla nel quale ero assorto, li seguo per non perdermi la lezione di storia. Tutti loro sono immersi nella spiegazione, alcuni fanno domande, curiosi, forse perché si sentono figli di quel tempo molto più di quanto non mi senta io. E questa non è una cosa di cui andar fiero. La sala nella quale entriamo è molto larga, ha le pareti piene di cartelli, teche di custodia, schermi atti alla riproduzione. Uno di questi proietta con tanto di audio un video in cui Mussolini pronuncia uno dei suoi discorsi: non faccio nemmeno lo sforzo di provare a capire quale. L’orrore della Shoa ha anche quella voce.
Un oggetto, in una teca, attira fra tutti la mia attenzione. È un lungo pezzo di carta, ingiallito dal tempo, anche il lungo elenco di nomi scritti su si legge ancora. Non sono nomi italiani, apparentemente, e forse non sono nemmeno tutti nomi: non posso non pensare che alcune possano essere preghiere, rivolte a un Dio al quale si chiedeva ‘perché?’. Ai suoi piedi giace, piegato, un pigiama a righe, grigie anch’esse, che dà l’impressione di essere stato appena svuotato del corpo che lo indossava.

Elenco di nomi di detenuti della risiera di San Sabba

LE SORELLE BUCCI – Ad un certo punto vengo raggiunto dal gruppo. Alessandra, a cui sono d’obbligo i complimenti per la spiegazione poco didattica e molto narrativa, prende a raccontare una storia che ha come protagoniste due sorelle: Andra e Tatiana Bucci.
Le due sorelline, ebree originarie di Fiume, furono deportate ad Aushwitz quando avevano 5 e 6 anni. Si racconta che tra loro si somigliassero tantissimo, al punto da sembrare gemelle. La storia vuole che la raccomandazione che veniva sempre fatta loro era quella di sottolineare che non erano davvero gemelle, dato che già circolavano voci su alcuni strani esperimenti fatti sugli omozigoti. Si sono salvate perché, nonostante avessero completamene disimparato l’italiano, alla Liberazione riuscirono a riprodurre quasi in maniera meccanica quello che la loro mamma ogni giorno andava a ricordare loro: “Tu sei Andra Bucci e sei figlia di. Tu sei Tatiana Bucci e sei figlia di”. Alessandra ci racconta che, pur avendo cominciato la loro vita con una deportazione, e proseguita dopo la liberazione nella inconsapevolezza che i propri genitori fossero riusciti a scampare all’orrore nazista, le donne affermano ancora oggi, con convinzione, di avere avuto una vita meravigliosa.

Considerazione disarmante.

LA SALA DELLE CROCI – L’ultimo luogo della Risiera che visitiamo è quello che ha fatto venir fuori fino in fondo la mia commozione. L’hanno chiamata ‘Sala delle croci’, è la stanza nella quale erano poste le celle di detenzione dei deportati. Lungo le pareti di una camera spoglia, fatta di pietra e sorretta da architravi in legno incrociate, si distribuiscono spaventose 17 celle, larghe poco più di un metro e lunghe nemmeno due, che arrivavano a essere occupate anche da 5 detenuti. In questo luogo, dove l’immaginazione stessa si fa sofferenza, le mie domande cessano di rimbombare, e il nulla pervade i pensieri: la morte ha il volto di quasi 3000 detenuti italiani, sloveni o croati che venivano portati qui ‘in priorità’ per essere poi ammazzati. Poi, però, quasi come un’epifania, un dettaglio che assume in sé la speranza balza ai miei occhi: una macchia di colore si staglia al centro di uno dei pilastri portanti. Si tratta di un garofano di colore rosso. Un urlo di rabbia che racconta una speranza che vive nonostante tutto. La nostra guida non ci dice quale sia in realtà la sua funzione, perché sia stato posto lì, e forse è meglio così: questo è uno dei rari casi in cui la libera interpretazione non può essere sbagliata.

I miei pensieri, in quel momento forse eccessivamente chiassosi, vengono nuovamente tirati giù da una frase che sento dire ad Alessandra: “Ho smesso di odiarli”. Queste sono le parole del signor Goruppi, un ex deportato alla Risiera che è riuscito a scampare agli orrori dell’olocausto, e che le pronunciò quando, da uomo libero, si trovò a trasgredite ad un divieto varcando una porta che non si doveva oltrepassare. Lei ci dice che l’uomo, trovandosi di fronte ai soldati delle S.S. mutilati e storpi, disse “Io non li ho mai perdonati e non lo farò mai. Lascio che questo sia il compito di Dio, però ho smesso di odiarli”. Ho deciso che, per me, quel garofano rosso rappresenta quel preciso sentimento provato dal deportato libero.

IL RITORNO DEI FASCISMI – Il nostro viaggio riprende, e io e Yara pensiamo che sia il caso di provare a chiedere a qualcuno dei signori quale sia il loro pensiero o anche solo il loro stato d’animo in quel momento. Loro non esitano a prestarsi ai nostri microfoni, e tutti ci dicono di pensare che quell’orrore è stato comunque commesso da mani umane, consapevoli o no che fossero, e che quel preciso insegnamento viene comunque, continuamente, dimenticato. Il ritorno dei fascismi è uno dei temi del nostro tempo, fuori da ogni logica o colore politico. La deriva nazionalista è un fatto del quale non si può non tenere conto.
La città di Trieste, però, ha la sfortuna di non poter identificare l’orrore solo col colore nero del nazismo. Un’altra, tristissima, pagina della storia di questi territori, di questa città e di queste persone, è stata scritta dal comunismo dell’est Europa, da quegli esseri-non-umani che gettavano chiunque fosse considerato nemico politico nelle foibe.

LA FOIBA DI OPICINA – Funzionava più o meno così, a sentire Alessandra: i primi due morivano sul colpo, tutti gli altri morivano di agonia, di una morte ancora più infame che ha l’immagine della sofferenza più vera. Non si sa ancora, con precisione, quanti uomini siano stati vittime di quel delirio assoluto, l’unica considerazione che oggi abbiamo non è riportata nelle pagine della storia che ci fanno studiare a scuola. È stato definito ‘Processo di italianizzazione forzata, e riguarda gran parte delle famiglie dei territori dell’Istria e non solo, che furono obbligati da Mussolini e dai fascisti a diventare altri. Furono costretti a svestire quasi completamente la propria identità e fingere di essere italiani: pena la morte. Quel trauma è rimasto e spesso è stato movente nella memoria degli abitanti di quei luoghi.

La foiba di Opicina

Nessuna giustificazione, ma l’orrore che racconta la foiba di Opicina merita un rispetto incondizionato, una realtà che la storiografia recente non ha mancato di omettere. La scritta incisa sulla pietra che chiude la voragine nella terra carsica recita: “Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono caduti”, e spesso questi sono proprio gli elementi che sono venuti a mancare nel racconto della storia.

A qualche passo dalla foiba coperta, poi, la nostra guida ci ha condotti a vederne un’altra, di più recente scoperta, molto molto più piccola e, a quanto pare, libera dall’onere di essere stata la tomba di esseri umani. Si racconta che ancora oggi, gli adulti originari di queste terre, portando a spasso per le campagne i propri figli, propongano loro il macabro ‘gioco’ del lancio del sasso. La procedura è tanto semplice quanto raccapricciante: si chiede ai bambini di gettare un sasso non troppo piccolo nella foiba cercando di capire se e dopo quanto tempo si sente il tonfo finale per provare a immaginare quale sia il rumore della morte.

Il tempo che passa, quando il tonfo finale si sente, è infinito. Se il colore della Risiera era il grigio, e il suo rumore il silenzio, qui le cose cambiano diametralmente. Il colore di questo posto, nonostante sia immerso nel verde della campagna triestina, è il nero profondo della foiba. Il suo rumore è quel tonfo. Aiutati dai nostri compagni di viaggio, prendiamo a lanciare delle pietre nel fosso, sentendole di volta in volta sbattere contro le pareti della foiba e poi, in qualche raro caso, il tonfo finale. Ad un certo punto, però, qualcuno riesce a prendere un masso ben più grande degli altri, reggendolo con due mani. Mi fanno cenno di fare attenzione nel cercare di riprendere con la telecamera il tutto, a che, senza cadere, io riesca a cogliere il lancio e allo stesso tempo il rumore.

Il microfono registra un unico, forte, picco.

Tum.

Il masso è caduto direttamente sul fondo, credo, impiegandoci un tempo che non riesco a quantificare. E poi il silenzio. Noi ci guardiamo, muti, senza la capacità di commentare in alcun modo: quel rumore avrebbe potuto essere uno qualunque di noi.

 

di Pasquale Ancona
Video di Yara Al Zaitr

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