Controllare la divulgazione scientifica in Rai? Il pluralismo dell’informazione è ben altro

FINITO IL SARCASMO PER LA GAFFE DELLA MINISTRA LEZZI, RESTANO MOLTI DUBBI CIRCA I PROGETTI SULLA TV PUBBLICA

Come minimo si sarà messo le mani nei suoi folti capelli ricci, Alberto Angela, quando avrà sentito la ministra pentastellata Barbara Lezzi annunciare in tv l’ultima delle strampalate proposte provenienti dal nostro laboratorio politico. In caso ve lo stiate chiedendo, stiamo parlando di quanto proferito dalla ministra per il Sud durante il talk show di attualità L’aria che tira in onda su La7. La stessa mente che l’estate scorsa suggerì che la crescita del Pil fosse dovuta al caldo e ai condizionatori accesi, ha colpito ancora. “Bisogna dare un’informazione a 370 gradi” le sue testuali parole. Errore di pronuncia o no, come era prevedibile la gaffe ha fatto il giro del web. L’intervento della ministra fa riferimento a una proposta di legge presentata nel marzo scorso su iniziativa del deputato Luigi Gallo circa la possibilità di modificare l’articolo 4 della legge 112 del 2013 in materia di “accesso aperto all’informazione scientifica”. Nel testo si chiede di dare ai cittadini accesso libero e gratuito alle ricerche scientifiche attraverso Internet e le riviste elettroniche. E fin qui niente di strano. Se non fosse che la proposta M5S preveda però anche il coinvolgimento dei vertici della Rai attraverso l’istituzione, da parte del ministero dello Sviluppo economico, di una Commissione per la divulgazione dei prodotti scientifici di maggiore interesse attraverso i canali della tv pubblica. Ed è questo il punto controverso dell’iniziativa. Ora non essendo di nostro interesse in questa sede cercare di capire se la ministra Lezzi conosca o meno il numero esatto di gradi di cui è composto un angolo giro, ci limiteremo a discutere del contenuto della proposta.

In sostanza, l’iniziativa si prefigge di cambiare il modo di trattare argomenti scientifici all’interno nelle trasmissioni televisive, dando spazio a diversi filoni interpretativi circa la spiegazione di un determinato argomento. Lo scopo sarebbe quello di fornire un’informazione più completa ed esaustiva al cittadino ed evitare le spiegazioni unilaterali. Un modo utile per dare magari alla comunità scientifica anche l’opportunità di smentire le “false informazioni che possono entrare nell’opinione pubblica senza verifica”.

Come ha fatto giustamente notare il conduttore Francesco Magnani, la scienza non è soggetta a opinioni. La verità in campo scientifico sorge soltanto laddove un’ipotesi viene verificata empiricamente, ci mancherebbe. Ma il pluralismo dell’informazione è un’altra cosa. Non è un male, anzi, è un bene che il cittadino sia tutelato dai pericoli della censura e dall’omologazione delle notizie. Tuttavia anche l’eccessivo pluralismo può comportare dei rischi, su tutti la perdita di attendibilità dell’informazione. Non vorremmo pensare che quei 10 gradi di eccesso nel nostro angolo di scienza siano riservati a fantasiose teorie pseudo-scientifiche con scarsa verifica alla base. Viviamo già da diversi anni nell’era del web 2.0, in cui chiunque ha libero accesso alla sfera pubblica e tutti possono parlare di tutto con tutti. Se è vero, dunque, che sul web il giornalismo pseudo-scientifico dilaga, è giusto quindi che almeno in tv siano i professionisti del settore a parlare. Non dimentichiamo che il compito dei mass media, televisione pubblica in primis, deve essere quello di informare per formare l’opinione pubblica.

Tornando al contenuto della proposta di legge, essa lascia senza risposta due grandi punti interrogativi: chi sceglie i membri di questa fantomatica commissione? Chi decide quale ricerca sia più importante di un’altra e quale delle due debba essere divulgata? È l’obiezione che ha sollevato Simona Malpezzi, senatrice del Pd. Osservazione peraltro legittima, perchè dal controllare l’informazione al manipolarla il passo è breve. Se così fosse, infatti, la Commissione in questione potrebbe riportare la mente al Minculpop fascista, l’organismo statale che durante gli anni del governo Mussolini esercitava a tutti gli effetti un controllo totalitario sulla cultura. È chiaro dunque come questa proposta di legge necessiti di più di una revisione per poter essere realizzabile.

A sostegno della proposta, in un articolo pubblicato sul suo blog online de Il Fatto Quotidiano il ricercatore Marco Bella, nonché deputato del M5S, contesta l’aumento vertiginoso dei costi delle riviste scientifiche degli ultimi anni. Il deputato evidenzia anche il paradosso che nella maggior parte dei casi chi contribuisce come autore di articoli per queste riviste non viene pagato. Ma allora, onorevole Bella, perchè invece di delegare un’ apposita Commissione di dubbia competenza non facciamo intervenire gli stessi autori delle ricerche a parlare in TV, senza che siano i gruppi editoriali a lucrare sul frutto del loro lavoro, e basta? Sarebbe senz’altro un ottimo espediente per fare di necessità virtù.

Ma scavando più a fondo nel problema, perchè siamo arrivati al punto di prendere in esame l’idea una Commissione che stabilisca cosa divulgare e cosa scartare? Un semplice programma culturale basterà davvero a risolvere il problema della cattiva informazione nel nostro Paese? È molto difficile dirlo. Questo perchè la nostra società purtroppo è afflitta da una grave patologia di analfabetismo scientifico. Gli studi del sociologo Luciano Pellicani affermano che in Italia soltanto il 3% della popolazione conosce il metodo scientifico basato sulla verifica delle ipotesi (o delle fonti delle notizie). Pur facendo parte dei paesi industrializzati, attualmente l’Italia è ai primi posti in Europa per sviluppo di movimenti contrari alla scienza e diffusione di notizie “pompate” di carattere complottista. Siamo a tutti gli effetti uno dei paesi più disinformati e creduloni del vecchio continente. Le correnti di pensiero anti-vaccinista e il caso Stamina rappresentano delle dimostrazioni lampanti in tal senso.

I mass media del nostro Paese spesso e volentieri invece di aiutare a fare chiarezza su certi argomenti, confondono. Laddove non c’è un’emergenza, la creano. Prendiamo ad esempio Le Iene Show. Perché in Italia dietro ogni ondata di sdegno popolare immotivata c’è sempre un servizio de Le Iene che si rispetti. Ne sono bastati due o tre, tra il 2013 e il 2014, per far credere a migliaia di italiani che la medicina ufficiale stesse remando contro un esperto di comunicazione che avrebbe inventato una terapia sicura ed efficace per curare le malattie neuro degenerative. Nulla di tutto questo: il metodo di Vannoni era stato giudicato pericoloso per la salute pubblica perchè privo di validità scientifica accertata. E inoltre, come dimenticare quel famoso giorno di maggio dell’anno scorso, quando di colpo si sono cominciate a moltiplicare segnalazioni alle autorità per casi presunti di ragazzini che si incidevano balene sul braccio? Il celebre caso del ‘Blue Whale’ può essere considerato un archetipo di giornalismo sensazionalista: un servizio montato ad hoc per impressionare lo spettatore, con pochissime verifiche alla base e per giunta arricchito di video e interviste non riconducibili alla vicenda. Il programma di Davide Parenti ha ingigantito un fatto accaduto in Russia e lo ha spacciato per un caso da allerta internazionale. E quella non è stata certo la prima volta che Le Iene hanno agito in un modo assolutamente contrario alla deontologia professionale.

In definitiva più che di un gruppo di esperti eruditi nominati ad hoc da chissà quale ministro, questo Paese ha bisogno di un radicale cambio di mentalità. È necessario che il cittadino venga educato a fruire dell’informazione in modo corretto. Come? Prendendo l’abitudine ad approfondire e verificare le fonti. Deve sviluppare un senso critico nei confronti della notizia, deve porsi sempre e comunque delle domande di fronte ad esse, l’importante è che non assimili passivamente tutto ciò che sente in televisione e tutto ciò che legge. E sia consapevole di non essere un “tuttologo”.

Al di là di questo, forse chi è al governo farebbe bene a ricordare che la diffusione della cultura è un tema da maneggiare con cura. Perché dalla conoscenza deriva potere, ma se si offre cattiva informazione alle persone si distorce l’opinione pubblica. E un’opinione pubblica confusa e disinformata non è nelle condizioni di fare scelte consapevoli, in politica come nella vita di tutti i giorni. Quella italiana lo è eccome. Se così non fosse, come sarebbe mai possibile che nel 2018 in Italia decine di migliaia di persone credono alla storia che i vaccini siano da considerarsi la causa principale dell’autismo di tanti bambini?

 

 

di Lorenzo Bonuomo

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