Volontari rapiti: la storia di suor Maria Angela Bertelli

RAPITA DAI RIBELLI DEL FUR PER 56 GIORNI: " I MIEI OCCHI NON AVEVANO MAI VISTO COSÌ TANTA FOLLIA"

Suor Bertelli

Mercoledì 5 dicembre, in occasione della Giornata Mondiale del Volontariato, si è svolta la conferenza ‘La mia vita in missione” organizzata da Intesa San Martino nella Biblioteca Sociale ‘Roberta Venturini’. Al centro dell’evento la storia di suor Maria Angela Bertelli, una missionaria saveriana rapita dai combattenti del FUR, gruppo armato sierraleonese, nel gennaio del 1995.

UN NOVIZIATO INASPETTATO – La storia di suor Maria iniziò durante il liceo quando, dopo aver visitato un campo rom, si accorse che studiare ragioneria non era abbastanza. Decise così di concludere gli studi e di dedicarsi all’assistenza sanitaria, intraprendendo la carriera da infermiera. “Avevo deciso di aiutare gli altri, ma in modo continuativo. Volevo che il mio lavoro, la mia carriera, si basasse sull’aiuto”. La passione di Maria non passò inosservata e l’allora vescovo di Carpi, mons. Artemio Prati, decise di convocarla e di offrirle una nuova strada, il noviziato. Dopo un percorso di studi a New York, suor Maria diventò fisioterapista per poi prendere i voti perpetui: “La prima tappa sarebbe stata l’Africa, decisero di inviarci in Sierra Leone”.

LA POVERISSIMA SIERRA LEONE – Maria Angela arrivò in Sierra Leone nel 1993, trovando davanti a sé uno stato poverissimo e con una forte instabilità interna: “I dati che ci mostrarono era sconvolgenti, i fattori di crescita erano incredibilmente bassi. Il Paese soffriva di un’altissima mortalità infantile, dove il 50% dei bambini non riusciva a sopravvivere. L’aspettativa di vita dei più piccoli arrivava a quattro anni, gli adulti massimo quaranta. Gli indici economici erano totalmente sballati e gli abitanti arrivavano a rimpiangere la colonizzazione britannica”. La Sierra Leone, dopo l’indipendenza ottenuta nel 1961, visse un periodo di forte instabilità dovuta sopratutto dall’antagonismo tra i due partiti principali: il Sierra Leone People’s Party, il partito dei Mende, simbolo della vecchia struttura coloniale, e l’All People’s Congress, identificativo dei Temne e rappresentante l’élite progressista. All’arrivo di Suor Maria, lo Stato era ancora nel caos e con una grande zavorra: il Fronte Unito Rivoluzionario, un gruppo sovversivo armato nato dall’unione di militari di frontiera, disertori e provenienti da Sierra Leone e Liberia. “I combattenti locali cominciarono a sparare le cisterne, ruppero i cavi elettrici per riutilizzare il rame, arrivarono addirittura a rimuovere i binari delle linee ferroviarie. Il Paese era in ginocchio”.

“Una volta arrivata iniziai subito i corsi di lingua, dopo sei mesi ero pronta per mettermi all’opera”. Il gruppo di suor Maria lavorava in un centro di cura per bambini poliomielitici e curava un servizio di clinica mobile che copriva cinque distretti e che vantava la presenza di esperti ortopedici olandesi. La sede della clinica era nei pressi di Masiaka, una città vicina alla capitale Freetown, ultima tappa del trasporto di diamanti dall’area di Kenema: “I diamanti erano fondamentali per le milizie che li scambiavano con le armi. La guerra civile era oramai al suo apice e così noi sorelle, consce del fatto che il nostro centro fosse un facile obbiettivo, decidemmo di rimandare pian piano i bimbi a casa. I nostri superiori ci diedero la possibilità di scegliere: potevano tornare in Italia o restare in missione”. La decisione fu unanime, nessuno abbandonò la Sierra Leone e per due anni continuarono con il loro lavoro: “Se i ribelli ci avessero attaccato, saremmo scappate come i civili”.

IL RAPIMENTO – “Quando ci sono venuti a prendere hanno sfondato la porta e ci hanno preso così com’eravamo, avevamo appena concluso la messa”. Il 25 gennaio del 1995 le suore si trovarono circondate da più di cento ribelli, armati di pistole e fucili d’assalto.”Entrarono in cinque o sei e ci puntarono in faccia i fucili. Erano tutti giovanissimi, il più grande avrà avuto trent’anni”. I ribelli andavano di villaggio in villaggio e cercavano cibo, acqua e oggetti di vario genere: “Oltre a noi, presero in ostaggio un centinaio di persone, perlopiù giovani ragazzi, che avrebbero poi frequentato l’addestramento”. Iniziò così un cammino tra paludi, guadi, foreste, tratti di savana, campi colti e villaggi bruciati. Un rapimento di cinquantasei giorni dove i combattenti del FUR sfogarono tutta loro violenza: “Abbiamo visto di tutto e di più: chi arso vivo, chi sgozzato o infilzato con la baionetta, altri mutilati o tagliati a pezzi e chi resisteva lo facevano fuori. Ai bambini uccidevano i genitori così da poterli armare. Nel percorso abbiamo contato cinquantadue villaggi saccheggiati o bruciati. I miei occhi non avevano mai visto così tanta follia, non sembravano umani. Lo facevano per metterci in guardia, ci mostravano cosa ci avrebbero fatto in caso di fuga”. Passavano le loro giornate camminando in fila indiana da un villaggio all’altro: “I combattenti mangiavano tutto ciò che c’era e a noi rimanevano soltanto gli scarti. Talvolta il cibo era marcio e ti passava la fame. L’acqua era pochissima, avevamo una tanica di dieci litri che doveva bastare per tutti. Come se non bastasse, nel fondo c’era spesso del fango così potevamo bere al massimo un bicchiere d’acqua a testa”. I lunghi tragitti, il digiuno e l’acqua sporca cominciarono a farsi sentire: “Vomito, diarrea e altri sintomi ci fecero capire di essere malate”. Il governo sierraleonese tentò di risolvere la questione bombardando nei pressi del percorso intrapreso dal gruppo: “Durante il cammino sentivamo le bombe che ci scoppiavano vicino, i ribelli dicevano: ‘State meglio con noi che nelle mani del governo, vedete che loro bombardano? Non sanno se vi colpiscono o no: se vi prendono morte darebbero la colpa a noi, se vi salvano si prendono la gloria!’. Non avevano poi così torto”. Dopo il fallimento dell’attacco aereo, il governo centrale decise di inviare la fanteria, dando inizio a uno scontro a fuoco: “Ci fecero nascondere dietro una collina, ci fischiavano le pallottole sopra la testa, eravamo tra due contingenti”. I ribelli vinsero la battaglia e da quel momento pensarono di esser stati traditi dalle sorelle. “Se la sono presi con noi, dicevano: ‘Noi vi abbiamo tenuti in vita fino ad ora e di sicuro siete state voi a far la spia, avete degli aggeggi particolari e avete comunicato con loro’. Ci hanno poi perquisito e intanto preparavano il tutto per fucilarci“. Difficile immaginarsi cosa passi nella mente di una persona conscia di star per morire: “Quando ti accorgi di una cosa del genere passi la notte in silenzio, preghi e ti affidi a Dio. Aspettavamo che venissero a prenderci. La mattina dopo però ci portarono in un altro campo”.

LE TRATTATIVE – Secondo la ricostruzione di suor Maria, la Farnesina si mise in contatto con i rapitori ma la trattativa fallì perché “probabilmente si sentirono derisi o comunque non rispettati”, facendo sì che i ribelli chiudessero ogni canale di comunicazione e rendendo difficile reperire informazioni. Nonostante la tragica situazione in cui si trovavano, la sorte fu loro favorevole. Per comunicare tra loro i disertori usavano delle ricetrasmittenti rubate, tutte rintracciabili dai trasmettitori delle missioni sparse nell’area. Una di queste era quella del mons. Giorgio Biguzzi, ai tempi vescovo di Makeni. Lui stesso racconta: “C’era una ricetrasmittente che usavamo per controllare le condizioni delle nostre missioni. Quando i ribelli rapirono le suore ci contattarono via radio e chiesero di parlare col vescovo: da quel momento iniziarono le trattative. Io trattai anche con Foday Sankoh, il leader massimo del FUR, che pian piano si accorse che non avrebbero ottenuto nulla, anzi avrebbero solo perso la faccia”. Il vescovo si accordò con i ribelli e per evitare che il governo potesse rintracciarli parlava perlopiù in dialetto cesenese: “Se il governo avesse scoperto dell’accordo avrebbe sicuramente cercato di tendere un’imboscata e i ribelli avrebbero reagito sparando. Se ci avessero scoperto non sarei qui a raccontarvelo. Così decisi di tagliare fuori tutti”. Insieme a suor Lucia, un’altra missionaria, mons. Biguzzi creò un modo per comunicare le frequenze attraverso l’uso di più codici: “Le dissi: ‘Lucia, prendi giorno, mese e anno della morte di Conforti’, quindi 5-11-31. Un’altra volta usammo i comandamenti: ‘Ti ricordi che la mamma diceva di non dire le bugie?’, l’ottavo comandamento, quindi otto, e così via”. Attraverso questi stratagemmi, mons. Biguzzi riuscì a concordare orario e luogo dell’incontro: un bosco scuro e silenzioso nei pressi di un villaggio oramai abbandonato. Le parti si accordarono, ma l’incontro avvenne a 180 km dalla posizione delle suore e, come racconta Maria, “eravamo in condizioni disumane, le ultime parole che mi disse il capo del campo furono queste: ‘Se anche dovesse finire la guerra non tornate indietro! Sapete troppe cose”.

Dopo la triste avventura, suor Maria tornò in Italia e passati tre mesi partì ancora una volta verso la Thailandia. Nonostante i problemi fisici e il grande trauma vissuto, “mi sono messa nella mani di Dio, non potevo rinnegare la mia strada. Ho sofferto, ho visto il peggio dell’uomo, ma è proprio così che ho capito l’importanza del volontariato. Noi siamo fortunati, ma nel mondo esistono persone che vivono questa realtà giorno per giorno, è per loro che ho continuato” e conclude “durante il rapimento sono sopravvissuta anche grazie alla solidarietà di qualche combattente e delle loro mogli. In principio non capivo da dove arrivasse tutta la rabbia dei rapitori, ma dopo la misericordia di alcuni di loro mi son chiesta: com’è possibile, in tutto questo male, trovare ancora un briciolo di umanità?”

di Fabio Manis

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*