Stefano Morrone al QP Pub: “Parma la mia città. Onorato di esserne stato il capitano”

PRESENTE ALLA TRASMISSIONE RADIO QUASI PARMIGIANI L'EX CENTROCAMPISTA SI È RACCONTATO. DAL SOGNO DI GIOCARE IN SERIE A AL FUTURO IN PANCHINA.

Calcare i terreni dei più grandi stadi italiani ed esteri è stato un po’ il sogno di tutti i ragazzi. Sacrifici, allenamenti e tante emozioni, è questa la routine del calciatore. C’è chi ce la fa, chi smette, chi deve faticare più del dovuto per coronare il sogno. Questa è la storia di Stefano Morrone, ora allenatore ed ex professionista che tra le tante maglie ha vestito anche quella del Parma Calcio, di cui è stato capitano. La sua storia è stata raccontata ai microfoni della trasmissione radiofonica QP Pub, condotta dai Quasi Parmigiani Fabio Manis e Andrea Coppola, in onda lunedì 23 marzo alle ore 21.00 su RadiorEvolution.

L’ex centrocampista di origini calabresi ha ripercorso la sua infanzia, da quando ha tirato i primi calci al pallone fino alla chiamata della Reggina: “Ho fatto la mia infanzia a casa, sono andato via a 19 anni anni ,quando ormai ero ‘arrivato’, e questa cosa la valuto in maniera molto positiva: una vera e propria fortuna. Oggigiorno i ragazzini vanno via di casa a 14-15 anni con la speranza di diventare un professionista, ma purtroppo non è detto che questo s’avveri in quanto il percorso rimane un po’ bloccato”. Ecco dunque l’importanza della famiglia nelle scelte di un ragazzo per il suo futuro: “La mia famiglia mi ha sempre appoggiato, ma mi ha fatto capire quali erano le priorità. Pensa che a 15 anni, quando giocavo nelle squadre locali, mi arrivò l’offerta della Reggina (al tempo era il club con il settore giovanile più importante della Calabria) che voleva comprarmi, ma mio padre non mi lasciò andare. Ricordo ancora le sue parole quando mi disse di no perché dovevo continuare a studiare, aggiungendo che se doveva avverarsi il sogno si sarebbe avverato anche un paio di anni dopo”. Profetico non vi pare?

Frasi che al giorno d’oggi potrebbero suonare in modo strano, inusuale. Chi non vorrebbe che il proprio figlio venga scelto da un grande club già all’età di 10 anni? Un treno che nella vita passa una volta sola e che bisogna sfruttare a tutti i costi o forse non proprio: “Secondo me ora si arriva troppo presto sui palcoscenici importanti e spesso non si è pronti a gestire la pressione. Un tempo se arrivavi in alto ci rimanevi perché ti eri fatto la ‘palestra’ precedentemente, con sacrifici, allenamenti, sfide, rimproveri. Ora la maggior parte sa giocare a calcio, ma non basta per rimanere in alto. Non basta la bravura, è un’insieme di capacità che uno deve possedere tra le quali la forza mentale e l’equilibrio”.

Una vita da mediano partita da Cosenza, dove Morrone debutta nel ’96 in Serie B, collezionando 26 presenze in circa due stagioni. Dopo la squadra calabrese arriva la chiamata dall’Empoli, con il quale esordisce nel massimo campionato di serie A il 1° novembre 1998. Come nasce questa carriera? In un modo molto particolare: “Nasce tutto all’età di 18 anni quando il Cosenza retrocedette in Serie C. Ci fu il cambio del mister ed arrivò Giuliano Sonzogni – detto ‘il Professore’ – che aveva bisogno di 6-7 giovani da portare in ritiro e in questo gruppo venni inserito pure io. Alla fine del ritiro ormai ero stato promesso ad un’altra società di Serie D, ma lui bloccò tutto opponendosi e da lì nacque la mia fortuna“.

Si passa poi al picco più importante nella carriera di Morrone ovvero l’arrivo al Livorno nella stagione 2005/2006, sotto la guida del mister Roberto Donadoni: “Forse la parentesi di Livorno è stata quella dove ho reso di più, dove ho toccato l’apice, senza dimenticare la convocazione in Nazionale, in un’amichevole con la Croazia nell’estate del 2006. Sono stati due anni fantastici durante i quali abbiamo raggiunto la qualificazione per la Coppa UEFA. Ci sono arrivato dopo svariati spostamenti: dall’Empoli al Piacenza, passando per il Palermo ed il Chievo Verona“.

Livorno nel cuore e nel segno di un cognome, quello dei Lucarelli, che accompagnerà Stefano per gran parte della sua carriera calcistica: “In attacco c’era Cristiano che ti garantiva minimo 20 gol a stagione. Poi c’era il primo Palladino, poi Vargas, Passoni e in porta Marco Amelia: Campione del Mondo nel 2006″. Poi a Parma è arrivato il momento di conoscere Alessandro, il secondo dei fratelli Lucarelli, con il quale si è creato un legame non solo sul campo da calcio ma anche fuori. Un rapporto fraterno, quello tra i due, legati dalla fascia da capitano e dal fatto d’essere modelli di un calcio d’altri tempi e valori.

Calciatori affascinanti ai quali affezionarsi e ispirarsi, proprio come quando un piccolo Stefano Morrone ammirava il suo idolo inseguendo un sogno che con il tempo diventò realtà: “Mi ispiravo già da giovane a qualcuno, ovvero a Paul Ince, centrocampista dell’Inter. Un calciatore forte, di grande personalità che rappresentava il mio idolo da ragazzo”. Non solo idoli sognati, ma anche grandi calciatori affrontati: “Totti, Nedved, Seedorf, Kakà, Zidane, Locatelli, Winter erano davvero forti e ti mettevano molto in difficoltà con la loro capacità di proteggere il pallone o di dribblare. A volte non ci dormivi la notte quando sapevi di doverli affrontare la domenica sul campo”.

Successi e soddisfazioni non solo da calciatore, ma pure durante la nuova carriera d’allenatore. Due partite sulla panchina del Parma per poi approdare al Sassuolo e guidare prima la Berretti – con la quale arriva il titolo Nazionale – e successivamente la Primavera. Un percorso all’insegna della gioventù: “È un’esperienza bellissima poter insegnare ai ragazzi, non è per nulla semplice ma ti dà tanto e tu puoi essere un modello per loro grazie all’esperienza vissute. A mio parere dovremmo avere un po’ più di coraggio ed equilibrio nel lanciare i giovani, anche se in Italia rispetto agli altri campionati europei è un po’ più complicato. Alla fine però ce n’è bisogno, come dimostra la Nazionale che sta facendo molto bene e dove c’è un mister preparatissimo che crede in questo percorso, in questo nuovo inizio”. Se a livello Nazionale i progressi uniti al lavoro di Roberto Mancini stanno dando i loro frutti, a livello dei singoli Club la storia è leggermente diversa. Difficoltà nel lanciare i giovani in prima squadra, tifosi esigenti da soddisfare e non solo: “Certo, si può fare meglio sotto tutti i punti di vista. Non solo sotto il punto di vista del lancio dei giovani sui palcoscenici importanti, ma c’è da fare un discorso alla base. Serve un’ammodernamento delle strutture, delle migliorie dal punto di vista dell’accoglienza negli stadi. Dev’essere un’Italia che cresce sotto tutti i punti di vista”. Nessuna esperienza all’estero da calciatore, ma magari in un futuro sotto una nuova veste: “Non essere mai andato all’estero rimane un mio cruccio. Sono stato vicino al Monaco dopo la stagione al Livorno e successivamente allo Shakhtar Donetsk, prima del passaggio al Parma, ma non si è fatto mai nulla”.

Ed è a Parma che Stefano Morrone conosce un popolo passionale, che lo esalta e lo elegge ad idolo della piazza. Una scelta non solo calcistica, ma di vita quella di trasferirsi in Emilia con tutta la famiglia in questa regione che è diventata la sua seconda terra natia: “Amiamo la città e la gente sotto ogni punto di vista. Ci siamo trasferiti nel 2007 e togliendo l’esperienza al Latina siamo sempre rimasti qua. Ci ha dato tutto e ci fa vivere nel modo che vogliamo. Aver vestito questi colori ed aver indossato la fascia da capitano è stato un’emozione ed un onore“.

Ora tra le partite di paddle (nuova frontiera del tennis) con gli amici e i tornei di calcetto Stefano Morrone continua con la sua carriera da allenatore. L‘ultima esperienza è stata al Brescia, da allenatore in seconda del ct e amico Fabio Grosso. Nonostante sia stata un’esperienza di un mese circa, lascia un insegnamento valido per il futuro e che sicuramente ha rafforzato ancora di più il rapporto da i due ex compagni: “Con Fabio siamo amici da quindici anni e c’era voglia di fare un percorso insieme. La vita da secondo ha meno riflettori addosso rispetto al primo, che deve gestire le voci, le pressioni dei giornalisti, dei tifosi e ci deve mettere la faccia ed essere strutturato. Il secondo gestisce maggiormente le dinamiche di campo ovvero i rapporti con i calciatori, le tattiche, l’analisi degli avversari senza troppe pressioni”. Qual è ora l’obiettivo? Quello di continuare la carriera da allenatore in un mondo, quello del calcio, imprevedibile. Una certezza? Parma.

di Riccardo Cisilino

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