Fare l’infermiere in carcere: tra empatia e sacrificio

C'è un diffuso preconcetto secondo cui fare l'infermiere in carcere sarebbe rischioso. Intervista al responsabile del Servizio Infermieristico del carcere di Parma

Staff infermieri del carcere di Parma 

L’infermiere in carcere è un mestiere non a tutti noto e fa i conti con il diffuso preconcetto per cui lavorare nei penitenziari sarebbe rischioso. La sanità penitenziaria però, è materia tutto sommato nuova. Solo nel 2008, dopo un lungo iter legislativo, si è stabilito il passaggio della competenza in materia di salute al Servizio Sanitario Nazionale, lasciando all’Amministrazione Penitenziaria il compito di provvedere alla sicurezza dei ristretti. Da allora, è l’infermiere a occuparsi del paziente, relativizzando dunque la sua condizione di detenuto.

Ne abbiamo parlato con Domenico Cannizzaro, responsabile del Servizio Infermieristico e tecnico dell’ Unità Operativa di salute penitenziaria del carcere di Parma. Ormai un anno fa, l’istituto di via Burla si era fatto avanti per affrontare il problema della preclusione del carcere, in maniera propositiva, rivolgendosi direttamente ai futuri infermieri.

In collaborazione con l’Università di Parma, Cannizzaro si è fatto promotore dell’organizzazione di una ADO (Attività Didattica Opzionale) rivolta agli studenti del terzo anno del corso di Infermieristica. L’idea è quella di un ciclo di incontri formativi con il preciso obiettivo di smontare ogni possibile pregiudizio sulla vita nelle carceri. Dopo un primo incontro pilota nel mese di dicembre 2019, si affronta anche l’aspetto relazionale che coinvolge l’operatore sanitario e il paziente detenuto. Stando a chi pratica l’ambiente, infatti, pare che il nocciolo della questione sia proprio la difficoltà per molti infermieri di mettersi in gioco da un punto di vista personale in quello che rappresenta un ambiente di lavoro sicuramente atipico, ma di grande valore esperienziale.

Con il sopraggiungere dell’emergenza Covid-19, il progetto si è bloccato, mentre la questione organico carente è rimasta, se non peggiorata a causa della pandemia.

Ma qual è la realtà effettiva di chi lavora nei carceri? Il lavoro da svolgere non è affatto diverso da quello che un infermiere pratica negli ospedali. Gli infermieri si occupano delle visite interne e coadiuvano l’organizzazione di quelle esterne, quando un detenuto necessita di controlli di salute da effettuare fuori dal carcere, cioè in ospedale. Ma ci sono anche le attività del reparto detentivo, con il centro prelievi e la gestione delle pratiche burocratiche legate all’elaborazione delle cartelle cliniche per ciascun paziente.

Il personale infermieristico è assunto dall’AUSL di Parma ed accedono in Istituto tramite graduatoria, a seguito di assegnazione al distretto di Parma. Una piccola parte dell’equipe opera in carcere tramite agenzia interinale: “C’è un impiego massiccio di personale – spiega Cannizzaro – Nell’arco delle 24 ore dispongo l’impiego di ben 21 operatori, nove al mattino, nove al pomeriggio e tre nei turni notturni nei reparti detentivi. E cerchiamo di farlo garantendo così la continuità assistenziale”.

E qui si svela uno degli aspetti più critici del mestiere. L’infermiere prende in carico il paziente in toto, già dal primo incontro con i nuovi giunti (nel gergo penitenziario, sono i detenuti appena arrivati). Con loro instaura un rapporto capace di intercettarne i bisogni, il paramedico si occupa delle terapie, conosce le patologie e il tipo di assistenza di cui necessita il paziente.

Il primo contatto in carcere dei detenuti avviene proprio con il medico e l’infermiere. “Si tratta prevalentemente di stranieri, questo li rende maggiormente una fascia vulnerabile – prosegue il responsabile tecnico Cannizzaro – Ma è vero anche che dell’aspetto sanitario in carcere si sa poco e questo determina un rafforzamento del pregiudizio. Eppure siamo personale inquadrato a tempo indeterminato proprio per cercare di creare una certa fidelizzazione con l’ambiente di lavoro, trattandosi di un mestiere molto delicato”.

Il racconto di Domenico parte da una evidenza personale: “Quando ho scelto di lavorare in carcere ero soprattutto incuriosito e avevo voglia di una esperienza di questo genere, ma ho trovato dissenso da parte della mia famiglia. Mio padre temeva che potessero insultarmi o obbligarmi a portare notizie all’esterno, o ancora costringermi a infrangere delle regole”.

La casa circondariale di Parma conta 625 detenuti e nonostante si tratti di un carcere di massima sicurezza, da anni i sindacati di categoria lamentano una carenza importante di poliziotti penitenziari. Secondo le organizzazioni sindacali si registra una mancanza di oltre 100 unità di personale, in particolare nei ruoli di ispettori e sovrintendenti.  Non è improbabile, quindi, che durante il lavoro l’infermiere possa rimanere solo con il detenuto: “Questo non deve spaventare – riprende l’infermiere – è possibile che la voglia di libertà, l’istituzionalizzazione a cui vengono sottoposti e le regole ferree da seguire prevalgano sulla salvaguardia della salute, e il detenuto arrivi così a fare richieste non previste, come un farmaco non indicato sul piano terapeutico che l’infermiere o il medico gli devono negare. La reazione, in quei casi, può capitare che ecceda in aggressioni verbali o fisiche”.

Di fronte a questo tipo di scenario, “non conviene essere giudicanti, né interpretare ruoli che mettono in crisi la relazione “. Secondo l’esperienza di Domenico, è più costruttivo usare ascolto e accoglienza, vedere la persona oltre la superficie. Questo implica mettersi in gioco, esercitando un mestiere in cui l’emotività va equilibrata costantemente, altrimenti si rischia di lasciarsi travolgere dalle storie di sofferenza, impossibili da scongiurare: “Sentiamo sfoghi legati alla salute che sono un grido di dolore anche per altro; a volte abbiamo di fronte uomini che attendono da tempo la lettera di un familiare, di avere notizie su un figlio che non hanno visto nascere. Tutto vorrei a quel punto, tranne che trovarmi di fronte un muro di indifferenza”.

Un lavoro, dunque, che mette sotto pressione e che fa spesso i conti con un problema collaterale come la carenza di organico: “Quando arrivano 3-4 nuovi infermieri – spiega ancora Cannizzaro – puoi gestire bene il numero del personale a disposizione, ma capita che spesso qualcuno e magari più di uno, vadano via, rendendo più complessa la copertura delle turnazioni”. Ma al momento il carcere di Parma riesce a gestire tutte le esigenze che si presentano e l’infermiere vive normalmente la sua condizione lavorativa.

“E’ una forma di detenzione a tutti gli effetti anche la nostra – conclude l’infermiere – quando entriamo nel penitenziario lasciamo i nostri apparecchi elettronici e durante l’orario di lavoro, per almeno sei ore, vediamo le sbarre alla finestra esattamente come loro. Viviamo una condizione di isolamento, con il rischio di un burnout dietro l’angolo”. L’empatia allora, diventa fondamentale.

 

di Sofia D’Arrigo

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