Ti porterò dall’Africa un bel fior: breve storia del passato coloniale italiano

Il passato coloniale italiano è segnato da periodi di luce e altri di ombre. Un'iniziativa del Centro studi movimenti cerca di fare chiarezza

Si è concluso giovedì 5 novembre, il convegno di studi multidisciplinare Ti porterò dall’Africa un bel fior che esplora l’esperienza coloniale italiana e le sue conseguenze.
A dar vita a questa iniziativa sono stati il Centro studi movimenti di Parma e l’Istituto nazionale Ferruccio Parri e Zapruder e Storie in movimento, con l’intento di raccontare la storia di un’Italia coloniale poco nota, o comunque oscurata da tradizioni coloniali di più ampia portata.

Storia e manipolazioni dell’Italia coloniale

Un errore che viene spesso commesso è quello di inserire l’immagine dell’Italia coloniale nella sola epoca fascista, quando invece – come ha raccontato Valeria Deplano, ricercatrice presso l’Università degli studi di Cagliari – già dopo otto anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, il governo Menabrea diede mandato ad una società commerciale di acquisire un avamposto sul Mar Rosso, con la formale conquista della prima colonia formale, l’Eritrea, che avvenne nel 1890.

Dopo la disastrosa sconfitta nella città etiope di Adua, subita sotto il governo Crispi nel 1896, l’Italia vide rinascere le proprie aspirazioni coloniali con l’inizio del XX secolo per opera di Giovanni Giolitti, che diede inizio ad una guerra contro la Libia nel 1911: fu la prima guerra mediatica che l’Italia affrontò.

Nel 1922, Mussolini salì al potere ed ereditò sulla carta le colonie già conquistate, ma il suo obiettivo era quello di occupare l’Etiopia e dichiarare la nascita dell’Impero Fascista, da lui immaginato come erede dell’Impero Romano.

 

Quando poi l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, il Corno d’Africa e la Libia, sue colonie, diventarono territori di guerra. Concluso il conflitto, la perdita di quei territori venne sancita nel ’47 con la firma del Trattato di pace. Ma ciò nonostante, l’Italia provò comunque a mantenere il controllo sulle terre ottenendo dalle Nazioni Unite l’amministrazione fiduciaria della Somalia.

È proprio in questi anni che iniziò una manipolazione della storia coloniale italiana: una storia contemporanea. È infatti durante la conferenza di pace di Parigi del 1946 che il governo italiano tentò di proporre, per la prima volta, una rilettura del proprio passato coloniale, compiendo in primis una distinzione tra colonialismo in epoca repubblicana e colonialismo in epoca fascista, attribuendo al primo un carattere docile, quasi innocuo, e lasciando al secondo le brutalità e le violenze commesse.

Altra questione centrale, su cui si fece molta pressione per tentar di dare al colonialismo italiano una tonalità diversa dagli altri, fu il lavoro. E’ Alessandro Pes, ricercatore in Storia Contemporanea presso l’Università di Cagliari, a spiegare, nel primo incontro, quanto questo tema sia stato centrale nel costruire l’immagine degli ‘italiani brava gente’. Ponendo infatti il lavoro come ragione e giustificazione del colonialismo, venne a crearsi l’idea di uno Stato che agiva nel benessere dei propri cittadini e non per ricavare profitto economico da nuove terre e aumentare il proprio prestigio internazionale. Men che meno emerse l’idea di voler sopraffare la cultura e le popolazioni locali, che anzi, avrebbero giovato dell’arrivo degli ‘invasori’ , esportatori di un maggiore sviluppo tecnologico.

Mussolini e il Corno d’Africa: la storia della bella abissina

Nel periodo coloniale fascista, Mussolini aveva un progetto in mente: da un lato doveva affermare la potenza italiana all’esterno, diffondendo un’immagine del paese rinnovato; dall’altro intendeva rafforzare la politica interna e il sentimento nazionalista per dimostrare una virtù guerriera attraverso la propria presenza nel mondo.

Il Duce lanciò dunque una campagna per riconquistare i territori libici della Tripolitania e la Cirenaica, ma nella Cirenaica -l’area più vicina all’Egitto- la resistenza ebbe la meglio fino agli anni ’20-’30. Successivamente, la situazione si ribaltò con l’arrivo al comando nell’esercito di Rodolfo Graziani, un generale che aveva accumulato esperienza sul campo di battaglia, partecipando ad una repressione civile in Tripolitania in cui erano stati commessi atti crudeli e cruenti contro la popolazione, come la costruzione dei campi di concentramento in zone desertiche, la deportazione e le esecuzioni.

Graziani fu uno dei pochi che riuscì ad avere la meglio sulla resistenza libica e una volta conclusa la pacificazione con la Libia, Mussolini ebbe le ‘mani libere’ per fare un salto di qualità: dimostrare che il fascismo fosse migliore del governo liberale e che egli era l’erede dell’antica Roma. Tutto ciò si ottenne occupando l’Etiopia, che sancì la proclamazione dell’Impero Fascista.

L’aggressione del paese complicò però i rapporti internazionali dell’Italia, perché l’Etiopia faceva parte della Società delle Nazioni. Nonostante ciò, la resistenza etiope riuscì comunque a contrastare il nemico italiano per tutta la durata della guerra, ossia per cinque anni.  Anni che furono cruciali per l’Italia, soprattutto, per il numero d’italiani inviati nel Corno d’Africa e per la spedizione dei ventimila in Libia: un progetto che prometteva agli italiani migliori condizioni di vita nelle colonie dove avrebbero trovato un lavoro e nuove terre da occupare e coltivare. Tutte possibilità che in Italia non sarebbero state garantite.

In questo periodo si diffuse la pratica del madamato, una forma di contratto matrimoniale tra la donna locale e i coloni italiani che imponeva una serie di obblighi per la prima. La donna offriva, infatti, servizi domestici e sessuali all’uomo, in cambio della sua protezione, estesa anche alla prole. In quegli anni, l’indigena divenne dunque la Bella Abissinauna sorta di ‘donna oggetto’ il cui unico scopo era quello di soddisfare il desiderio sessuale dell’uomo.

Nel 1930 la propaganda fascista enfatizzò la pratica iper-sessuale, tanto che anche in alcune cartoline dell’epoca la donna straniera veniva raffigurata come un ricordo dell’Africa Orientale. Durante il periodo di occupazione le similitudini tra la conquista territoriale e quella sessuale furono all’ordine del giorno. 

L’ideologia fascista credeva, infatti, che le qualità del colonizzatore italiano, unite al suo alto tasso di fertilità, avrebbero via via rimpiazzato la popolazione autoctona, considerata ‘inferiore’. Questa ‘inferiorità’ venne definitivamente sancita con l’emanazione delle leggi razziali, che divisero i quartieri della popolazione locale da quelli dei cittadini di origine italiana.

Inoltre, il 19 aprile del 1937 il Regime fascista emanò la legge n.880 che vietava e puniva il rapporto tra il cittadino italiano e la donna locale, mettendo dunque fine alle relazioni coniugali con persone di origine italo-africana o straniera. L’elemento principale d’accusa era che tali rapporti potessero elevare la donna ‘nera’ a compagna di vita, fatto che avrebbe ‘sporcato’ il sangue italiano. L’infrazione della legge era punita con la reclusione da uno a cinque anni.

E’ proprio nel contesto del colonialismo che si consolidarono e diffusero i concetti  di ‘genere’ e ‘razza’, portandosi con sé pregiudizi e stereotipi che ancora oggi conosciamo. Ed è sempre in quest’epoca che la denominazione di  ‘uomo bianco’ perde qualunque classificazione razziale, diventando una condizione neutra e naturale; ne è un esempio l’italianità che, da quel momento, venne implicitamente associata alla bianchezza.

Quello che impedisce alla società odierna di abbattere l’eredità del colonialismo è un’inconsapevolezza diffusa, l’unica via possibile per scoprire e poi eliminare questo insieme di pregiudizi, è dare vita ad un processo di coscientizzazione collettiva, un processo di studio e ricerca sicuramente non breve, ma che dovrebbe portare chiarezza sul passato coloniale e più libertà nel presente. 

 

di Giulia Specchio e Sofia Frati

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