Laureati all’estero? Si, ma attenti a dove studiate

Vedersi riconosciuta una laurea estera in Italia non è sempre così facile e alcuni sono costretti a rinunciare al proprio titolo accademico

L’Italia è da sempre considerata la terra dell’arte e uno dei bacini della cultura occidentale. Non sono poche le persone che da ogni parte del mondo si trasferiscono nel Bel paese per trovare lavoro. Laureati che desiderano mettere in pratica quello che hanno acquisito nei loro paesi d’origine per tentare maggiore fortuna in un contesto economico talvolta migliore rispetto a quello di provenienza.

In Italia, il Centro di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche (CIMEA) “Fornisce mediamente ogni anno risposte a oltre 20.000 quesiti in tema di riconoscimento e valutazione di qualifiche a università italiane e straniere”. Il CIMEA si occupa dunque di valutare le domande di equivalenze accademiche, ossia il processo che in Italia rende possibile il riconoscimento di un titolo di studio acquisito all’estero. Ma come si approccia il MIUR (Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca) nei confronti di questi titoli?

Già nel 1997 e fino al 2002 l’Italia aveva sottoscritto accordi che rendessero più agevole il riconoscimento delle lauree estere. Un esempio è la Convenzione di Lisbona, ossia un accordo internazionale che intendeva facilitare il reciproco riconoscimento dei titoli di studio di istruzione superiore fra i paesi firmatari.

Nonostante le numerose adesioni alla Convenzione, però, lauree conseguite in determinati paesi possono richiedere ore di tirocinio aggiuntive; il conseguimento di idoneità linguistiche; corsi di studio da allegare al proprio curriculum; oltre che una serie di pratiche burocratiche complesse che devono passare per i singoli atenei interessati.

In alcuni casi, tutto ciò rischia di demotivare il singolo nel farsi riconoscere il proprio titolo accademico, con la conseguenza che molte persone finiscono poi per svolgere mansioni lontane dal percorso formativo concluso nel proprio paese di origine.

Lo dimostrano le storie di Maryiana, Lidya e Gianluca.

Maryiana si diploma come infermiera pediatrica in Bulgaria nel 1978. Subito trova un impiego nell’ospedale nel quale lavorerà per i successivi venticinque anni. Un secondo diploma di aggiornamento nel 1995 e SUO il lavoro prosegue. In Bulgaria però lo stipendio è molto basso e in lei cresce il desiderio di tentare la fortuna all’estero. Arriva in Italia nel 2003 ma è solo nel 2006 che decide di chiedere il riconoscimento del suo titolo di studio grazie ad un’amica che la incoraggia a fare il mestiere per il quale ha duramente lavorato.

Maryiana raccoglie quindi i documenti necessari e li invia al Ministero della Pubblica Istruzione,  attendendo notizie. Dopo mesi, la risposta: “Mi ha chiamato una mia amica per dirmi che era arrivata la lettera, ero al settimo cielo”. Eppure, aperta la busta, l’entusiasmo sparisce. “Quando l’ho aperta sono rimasta malissimo”. Infatti la lettera chiarisce che le mancano più di 2000 ore di tirocinio. (Com’è possibile che a un’infermiera che ha lavorato per 25 anni in un ospedale manchi della pratica?).

Ma Maryiana lavora in Italia come badante e ha una famiglia cui provvedere, non può permettersi di dedicare così tanto tempo ad un lavoro non retribuito. E così la rassegnazione e la rinuncia. Oggi Maryiana ha 63 anni e la settimana prossima torna in Bulgaria un po’ amareggiata da questo lungo soggiorno italiano che non le ha permesso di svolgere la sua passione.

La storia di Lidya si interrompe ancora prima. Il coraggio infatti le manca fin da subito. È la burocrazia a frenarla e l’incertezza del futuro. Laureata in Perù, suo paese d’origine, in Scienze dell’Educazione nel 2005, arriva a Parma, nel 2010 dove di informa subito sulla validità del suo percorso di studi. Anche nel suo caso la risposta è negativa: avrebbe dovuto inviare al Ministero tutta la sua documentazione universitaria, compresa di programma degli esami tradotto in italiano e solo allora sarebbero stati in grado di fornirle qualche informazione.

Nessuno riesce però a dirle, nemmeno approssimativamente, quanto tempo richiederà il tutto. Di certo si parla di anni ma nessuno sa dirle quanti. “Uno spreco di soldi e tempo” commenta una Lidya demotivata, che adesso è decisa ad abbandonare l’idea del riconoscimento della laurea, per intraprende la carriera di personal trainer. “Forse sarei riuscita ad ottenere il riconoscimento, allora però non vedevo la fine di questa procedura e questo mi aveva portato ad abbandonare”.

La vicenda di Gianluca è invece ancora in corso. Gianluca è un ragazzo italiano di 29 anni che ha deciso di andare ‘fuori porta’ per studiare odontoiatria. “Pensavo potesse essere un valore aggiunto sperimentare una nuova esperienza di vita in un altro paese e poter studiare nell’ambito che avevo scelto”. Il sogno di una vita: portare avanti l’attività di famiglia del nonno. Nel 2017 si laurea dunque in Messico e poi torna in Italia.

Nel 2018 è in possesso di tutti i documenti necessari da inviare al Ministero per il riconoscimento. Questi documenti sono però da tradurre in italiano e Gianluca si appoggia dunque ad un avvocato che possa aiutarlo nell’iter. Invia la documentazione autenticata nel febbraio 2020, ma la risposta dal Ministero è ancora un rifiuto.

Nonostante le ore di studio e di tirocinio conseguite in Messico siano superiori a quelle previste dall’equivalente corso di laurea italiano, il primo si articola in quattro anni più uno di tirocinio, invece che in cinque più uno come in Italia. Per questo il Ministero decide di non considerare la richiesta di Gianluca. “All’arrivo della lettera avevo tempo 10 giorni per inviare un reclamo allegando magari altri documenti e altri attestati. Così sono tornato dall’avvocato e abbiamo inviato questa lettera inserendo anche le certificazioni del master che avevo seguito sempre in Messico. Ma non mi hanno ancora risposto”.

Gianluca oggi è tornato in Italia da tre anni con un titolo di studio che si è duramente guadagnato ma che per ora sembra carta straccia. Come Lidya, si sente frustrato. Non vede la fine di questo procedimento, ma non vuole nemmeno cambiare i suoi sogni. Se non gli venisse riconosciuta la laurea nel suo paese d’origine, è deciso a tornare in Messico ad esercitare là la professione di dentista, allungando la lista degli italiani che hanno deciso di lasciare l’Italia in cerca di un sistema burocratico meno complesso e ostile.

Queste sono solo alcune delle storie di persone che ripongono nell’Italia una speranza lavorativa, stroncata poi da un sistema imperfetto. Le loro capacità e la loro professionalità potrebbero essere poste a beneficio della comunità, ma il risultato è spesso un cambio di rotta verso altri paesi.

Ciò che lascia di più l’amaro in bocca è che in Italia i percorsi universitari promuovono con valore l’esperienza Erasmus, gli scambi interculturali o i periodi di studio all’estero, visti come un’opportunità per migliorare un’altra lingua, un’altra cultura e per ampliare gli orizzonti.

Eppure, sembra che per gli impavidi che hanno deciso di seguire l’onda della globalizzazione provando ad essere cittadini del mondo, il faccia a faccia con la realtà dipenda dal paese in cui hanno deciso di studiare.

 

di Gabriele Cassarà e Chiara Paletti

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