Le cure palliative: un diritto a non soffrire
La morte resta un tabù della cultura occidentale. Ma la cura dei malati, anche in via terminale, può aiutarci a colmare questo vuoto creato ad hoc dalla nostra società
Non possiamo negarlo: esistono certi temi di fronte ai quali ciascuno di noi è portato istintivamente a ritrarsi, quasi a nascondersi dietro ad un dito, nella speranza di poterli ricacciare in quell’angolo del nostro cervello da cui di tanto in tanto vengono a disturbarci. E tuttavia è proprio l’assenza di un confronto e di un sano dialogo a rendere questi temi ancora più spaventosi ai nostri occhi. Prendendo spunto da un’iniziativa dell’Università di Parma, cerchiamo così di analizzare la realtà delle cure palliative e tutto il mondo di dolore e sofferenza che esse, almeno in parte, tentano di sanare.
Lo scorso 18 novembre si è tenuto l’evento online Le cure palliative: un diritto a non soffrire, organizzato dal Centro universitario di bioetica dell’Università di Parma. L’incontro è stato introdotto da Antonio D’Aloia, Direttore dello stesso Centro Universitario , ed ha visto l’intervento di Luciano Orsi, medico palliativista e vicepresidente della Società Italiana di Cure Palliative (SICP). Si è così avuto modo di discutere, con una partecipazione davvero sorprendente, di una tematica troppo spesso trascurata dalla comunicazione mass-mediatica, ma che assume, oggi più che mai, un ruolo davvero centrale nella vita di tutti i giorni.
Le cure palliative: una definizione
Trattandosi di una disciplina piuttosto recente, ancora non sono state formulate precise definizioni in sede teorica. Il tentativo ad oggi più soddisfacente è senza dubbio quello proposto dalla IAHCP (International Association of Health Care Professionals) che parla di “cure attive e globali degli individui di ogni età con importanti sofferenze legate alla salute a causa di patologie serie, e specialmente di quelli prossimi alla fine della vita”. Una precisazione, quest’ultima, che ci permette di comprendere come queste non debbano intervenire solo negli ultimi giorni, ma in qualunque contesto di sofferenza.
Il fine delle cure palliative non è tanto di aumentare quantitativamente la vita del paziente, quanto piuttosto migliorarne la qualità. Ove correttamente applicate, anche le cure palliative possono favorire il decorso della malattia, benché non si propongano esplicitamente di affrettare né di posticipare la morte, a differenza di pratiche come l’eutanasia, basate sulla somministrazione di farmaci letali. Alla base vi è, dunque, il tentativo di permettere al malato di vivere il più pienamente possibile la fase finale della vita, cambiando progressivamente gli obbiettivi di cura, in base alle esigenze del paziente ed evitando di scadere in accanimento terapeutico. Come si potrà comprendere, però, il medico palliativista si trova costantemente a gestire problematiche di tipo non solo fisico, ma anche e soprattutto di tipo psicologico, spirituale e sociale.
La legislazione
In sorprendente anticipo sul contesto internazionale, la prima normativa italiana riguardo le cure palliative risale alla Legge 38 del 2010 concernente “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore“. “Per la prima volta- si legge- si garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze”.
Una legge in deciso anticipo, basti pensare che l’OMS ha riconosciuto il diritto all’accesso alle cure palliative solo nel febbraio del 2018. Tornando alla normativa nazionale, queste sono applicabili in tutti i luoghi di cura (hospice, ospedali, RSA, RSD) e possono essere fornite da tutti i professionisti con formazione di base. Nonostante tutto, permangono ancora notevoli problematiche a livello amministrativo. Anche in questo caso, la realtà italiana si presenta estremamente disomogenea: “Il livello di cure garantite ad un cittadino lombardo o emiliano- spiega il medico palliativista Luciano Orsi– è ben diverso rispetto a quello possibile in regioni del sud Italia. Permane, inoltre, una notevole distanza tra la città e la campagna, specie in comparti montuosi dove poco o nulla si riesce a fare con l’assistenza domiciliare“.
Ma non è questo l’unico problema: perché le cure palliative possano diventare una realtà diffusa a livello nazionale, è necessaria un’adeguata preparazione a livello medico. Oggi, però, solo 2 CFU nel percorso formativo di medicina sono dedicati alle cure palliative: troppo poco per poter avere un salto qualitativo.
Un primo cambio di paradigma: il paziente al centro
Prima di affrontare la prima grande innovazione introdotta dalle cure palliative, può essere utile un veloce resoconto storico: la disciplina nasce a fine anni ’60, quando l’inglese Cicely Saunders (di cui è possibile trovare un’interessante descrizione biografica all’interno del sito a lei dedicato, di raccolta fondi) fondò il St. Christopher’s Hospice a Londra. Qui i malati incurabili e in punto di morte ricevevano cure mediche specializzate e assistenza, oltre a un sostegno emotivo, spirituale e sociale. Cicely, che morirà nel 2005 proprio nell’hospice da lei fondato, scriverà in merito: “La morte come nemico dei nostri pazienti? Il mio compito è di occuparmi della salute del paziente. Vi sono tempi in cui morire è nell’interesse della salute. Non è sano protrarre il morire”.
Non può essere un caso che le cure palliative nascano dall’idea di una donna, una donna infermiera per di più, abituata a stare accanto giorno dopo giorno ai malati, incontrandone bisogni e sofferenze. Questa è senza dubbio una delle principali innovazioni introdotte dalle cure palliative, in grado di operare una sorta di rivoluzione copernicana, ove il centro di gravitazione nella scelta della cura non è più dato dalla famiglia, ma dal paziente stesso, dotato ora di piena autonomia .
Infermiere a contatto diretto con i pazienti si diceva. Un contatto di cui si trova traccia nelle loro stesse parole. Può essere utile in tal senso riportare un intervento apparso qualche giorno fa sul sito web della SICP. Il racconto di Donatella Martinelli prende spunto da una “storiella zen”: una bambina, terminata la lettura di un libro, si lamenta con il suo maestro di ricordarne poco o nulla. Questi, assetato, le ordina di andare al fiume per prenderle un po’ d’acqua. Come contenitore, però, le dà un vecchio setaccio che ha con sé. Desiderosa di soddisfare la richiesta del maestro, la bambina si reca di corsa al fiume. Dopo ore e ore di vani tentativi, non può fare altro che tornare dal maestro: “Non riesco a prendere l’acqua con quel setaccio- dice sconsolata. Perdonatemi maestro, è impossibile e io ho fallito nel mio compito”. Il maestro le fa però notare che il setaccio è ora come nuovo. “Quando leggi dei libri- sostiene il vecchio maestro, tu sei come il setaccio ed essi sono come l’acqua del fiume. Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta l’acqua che essi fanno scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro idee, le emozioni, i sentimenti, la conoscenza, la verità che vi troverai tra le pagine, puliranno la tua mente e il tuo spirito, e ti renderanno una persona migliore e rinnovata. Questo è lo scopo della lettura”.
“La storiella-commenta Martinelli- mi ha fatto pensare a quanto incide anche nel nostro lavoro ogni paziente con cui ci troviamo a relazionarci, quanto ogni nuova storia, ogni nuovo percorso di vita e di malattia che incrociamo lasci un segno sul nostro percorso professionale e umano“.
Un secondo cambio di paradigma: il tabù della morte
Nella cultura occidentale, la morte è divenuta negli ultimi anni sempre più un argomento tabù. Basti ricordare un fatto sotto gli occhi di tutti. Per la generazione dei nostri nonni (ma molto spesso basta guardare ai nostri genitori soprattutto dell’Italia meridionale) era cosa normale esporre in casa il cadavere del defunto in attesa della commemorazione, e anzi: il ricorso ad una ditta di pompe funebri era ritenuto una mancanza di rispetto nei confronti del caro venuto a mancare. Oggi, invece, si cerca sempre più di allontanare la morte dalle nostre case, quasi che fosse divenuta un contagiosissimo virus.
E così, arroccati nei baluardi della scienza, capita di sentirsi invincibili e immortali, salvo poi accorgersi, di punto in bianco, che la precarietà, per quanto si tenti sempre più di nasconderlo, è condizione stessa dell’esistenza umana.
“Tutti gli esseri umani devono morire – scriveva Hannah Arendt. Ma gli esseri umani non sono nati per morire, ma per incominciare”. Verissimo: ma come scrive Gabriella Caramore, in un recente articolo su Doppiozero, “siamo fatti per incominciare. Ma siamo fatti anche per finire. La fine deve poter essere considerata, indagata se non si vuole privare la vita umana di una parte essenziale del suo percorso, come se il tempo ultimo fosse un arto amputato da gettare via. Senza ossessione, naturalmente. È naturale che la gran parte della vita la trascorriamo pensando alla vita stessa. Sarebbe patologico il contrario. Eppure, anche l’ultimo tratto di strada deve essere percorso con l’attenzione, e la cura, che si deve a quelli precedenti. Proprio la sua fragilità ce lo chiede. E anche quell’imperscrutabile evento che è la morte stessa. Una civiltà che trascura di pensare la mortalità, e che non ne ha cura, è una civiltà che prima o poi si guasta, si deteriora, va a male: letteralmente ‘va verso il male’”.
Proprio questo è il presupposto alla base del secondo, radicale, cambio di paradigma imposto dalle cure palliative alla medicina tradizionale: se quest’ultima vede la morte come un nemico da combattere a tutti i costi, fino all’accanimento, ecco che la prima interpreta invece la morte come conclusione di un semplice ciclo naturale che, in quanto tale, dovrà essere accettata.
Può essere utile, a tal proposito, ricorrere alla filosofia antica. Nel Fedone platonico, si descrivono gli ultimi giorni di Socrate, ingiustamente condannato a morte dai suoi concittadini ateniesi. Amici e parenti tentano in tutti i modi di sottrarre l’amato filosofo dalla sentenza. Lo stesso Socrate, però, si appella al primato della legge rifiutando di ricorrere a ingannevoli stratagemmi. Di fronte alla pressante richiesta di amici e compagni di ritardare quanto più possibile morte, rifiuta, consapevole “di non guadagnare nient’altro, bevendo il veleno un poco più tardi, se non di rendermi ridicolo ai miei stessi occhi, aggrappandomi alla vita, e cercando di risparmiarne quando ormai non c’è ne è più“.
Tale sembra essere il rapporto che si viene sempre più spesso a creare tra il malato e i familiari: l’autonomia decisionale del primo viene ad essere spesso calpestata dalla volontà, verrebbe quasi da dire puramente egoistica, dei primi di allontanare quanto più possibile “l’ultimo nemico“.
La “cura” come via di fuga alla morte
Nella nostra quotidianità frenetica, capita sempre più spesso di imbattersi in anziani trascinati ormai spenti e in solitudine nelle case di riposo, o rimasti in una abitazione priva di conforti affettivi, dei minuscoli piaceri simili a quelli di cui sanno godere anche i bambini.
“Sono i testimoni muti di una vergogna taciuta del nostro modo di essere ‘civili’– commenta Caramore – Certo il problema non è di semplice soluzione. Ma occorrerebbe mobilitare forze, inventare nuovi moduli architettonici, nuove forme di integrazioni familiari e comunitarie per impedire che le esistenze umane finiscano in questo modo inumano. Il che non significa prolungare a tutti i costi il numero dei giorni. Anzi. Occorrerebbe imparare anche il distacco, elaborare un accoglimento della fine, sapere che, appunto, siamo destinati anche a finire, non solo a incominciare, e che soprattutto occorrerebbe addestrarsi, come in un esercizio di ascesi, a capire quando è il momento di disserrare le mani e il cuore e lasciarsi andare“.
Per rimanere in ambito letterario, si cita un romanzo che non ha goduto in Italia del successo che avrebbe meritato, disponibile anche in audiolibro con lettura di Federica Fracassi sul sito di Ad Alta voce : Il diario di Jane Somers, di Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007 con motivazione “cantrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa”. La protagonista, una giornalista poco più che cinquantenne, brillante e in carriera, raffinata e sempre attivissima è travolta da un turbine emotivo di fronte alla morte del marito, a lungo tradito, tale da decidersi a prendersi cura di una vecchia, irritabile e scontrosa, Maudie, giunta ai suoi ultimi giorni di vita.
Proprio la cura sembra, dunque, essere la soluzione più affidabile di fronte al mistero insondabile della morte. “L’umanità- scriveva Michel Focault– sembra avere l’obbligo di prendersi cura dell’altro, non per scelta etica, ma come atto fondativo della sua essenza“.
Per rimanere alla filosofia del Novecento, Vladimir Jankélévitch, filosofo e musicologo francese scrive: “ciò che conta non è tanto il morire, ma come si è vissuti. Perciò la morte, che accompagna tutta la nostra vita, deve indurci a una pienezza di vivere, a un dispendio di sé verso il mondo e verso gli altri, perché ciò che siamo stati, con tutta la nostra debolezza e incompiutezza, sarà il segno che avremo impresso sulla ruvida crosta della terra“.
Il ruolo della comunicazione
La comunicazione e il dialogo possono avere un ruolo fondamentale nell’abbattere paure e tabù ormai cristallizzati da anni e anni di rimozione della morte. E proprio alla comunicazione si rivolge, non a caso, lo stesso Luciano Orsi, in una sorta di appello finale che assume quasi il tono di invettiva. “Troppo spesso a livello mass-mediatico si confonde tra eutanasia soft e cure palliative – spiega Orsi – Tra queste due discipline vi è però una differenza non da poco, e sottolinearlo è oggi più che mai necessario perché le cure palliative possano diffondersi sgombre da pregiudizi. Purtroppo constatiamo, inoltre, una sorta di ‘oppiofobia collettiva‘: l’oppio è troppo spesso etichettato come ‘farmaco dell’ultimo giorno‘. Un messaggio, questo, in larga parte veicolato da una produzione cinematografica superficiale e approssimativa. E così sempre più frequentemente ci troviamo di fronte a pazienti che rifiutano farmaci oppiacei, per fare ricorso ad analgesici, con gravi conseguenze sulla salute”.
di Filippo Pelacci
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