Il paesaggio violentato. Le due guerre mondiali, le persone, la natura

Presentato il volume che raccoglie le memorie del Convegno sui cambiamenti del paesaggio nel Secolo Breve, tra Prima e Seconda Guerra Mondiale.

La natura riprende possesso delle costruzioni dell’uomo in Val Grande

Lo scorso 11 febbraio, si è tenuta in diretta streaming la presentazione del volume Il paesaggio violentato. Le due guerre mondiali, le persone, la natura, curato da Giorgio Vecchio e Gabriella Gotti, in cui si raccolgono gli Atti del Convegno Internazionale organizzato da Istituto Alcide Cervi e Università di Parma a Palazzo del Governatore il 21 e 22 novembre 2018. Alla base del volume vi è un approccio eterodosso al paesaggio, che offre oggi molti spunti di riflessione.

Breve storia della disciplina

La Sila è un vasto altipiano che si estende per poco più di 150.000 ettari nella Calabria settentrionale, equamente ripartito tra le province di Cosenza, Catanzaro e Crotone. Terra rurale, fatta di tradizioni e rituali che si perpetrano da millenni, sfruttata da secoli per la sussistenza di migliaia tra contadini e boscaioli. Si racconta che un tempo a Camigliatello, piccola comunità nel comune di Spezzano Silano, un anziano contadino, vittima di una serie di annate di magra, decise di tentare la strada degli oracoli. Si recò quindi dal noto mago Salomone, che, dopo averlo ascoltato, gli suggerì di procurarsi terra nuova e buoi rossi. Tornato nel paese natale, il contadino cercò in lungo e in largo una terra nuova e un paio di buoi rossi da aggiogare all’aratro. Nonostante i suoi sforzi, però, continuarono le difficoltà, con raccolti sempre più scarsi che misero alla prova le sue capacità di resistenza. Lamentatosi di ciò con il mago, Salomone gli avrebbe spiegato l’oracolo: “Ti dissi di procurarti una terra nuova– spiegò Salomone- intendendo la terra dei boschi, mai inariditi dalle coltivazioni dell’uomo. Ti parlai, poi, di buoi rossi: il fuoco, caro mio, l’unico strumento utile per ricavare terreno coltivabile dalla selva incolta”.

Con questo racconto, tanto affascinante quanto complesso, si apre uno dei saggi più noti di Emilio Sereni, storico e studioso del paesaggio agrario italiano, nonché convinto antifascista, primo presidente dell’Alleanza Nazionale dei Contadini e ministro dell’assistenza postbellica nel primo governo Degasperi. A Sereni si deve un nuovo metodo di studio del paesaggio, descritto non tanto a partire dalle sue caratteristiche oggettive, quanto piuttosto in un’ottica storica/diacronica: ecco così che il paesaggio diventa una sorta di gigantesco palinsesto, plasmato dall’uomo e dalle sue attività. Si spiega così l’attenzione, quasi ossessiva, di Sereni alla pratica del fuoco controllato (tecnicamente chiamata debbio o ronco, a seconda delle inflessioni regionali) alla base di molti dei paesaggi italiani e così ben testimoniata dal racconto riportato in incipit. Un paesaggio che lo stesso Sereni definisce a marrelo, termine di origine provenzale per indicare il gioco della campana: un paesaggio costituito cioè da tanti poligoni irregolari, ottenuti dalla serie di incendi e accostati l’uno all’altro, come le linee tracciate dai bambini sull’asfalto per delimitare i rettangoli entro cui saltare.

Emilio Sereni

Potenzialità e limiti del metodo sereniano

Ispirato dalla storiografia annalistica di Marc Bloch, Sereni diede così vita ad una nuova chiave di lettura del paesaggio, veicolata soprattutto attraverso Storia del paesaggio agrario italiano, senza dubbio la sua opera più nota, uscita nel 1961 grazie alla collaborazione con Laterza, dopo notevoli difficoltà nel reperire un editore disposto alla pubblicazione. A sessant’anni dall’uscita del volume, siamo senza dubbio in grado di riconoscere da un lato gli innumerevoli meriti (uno su tutti: l’avvenuto superamento di un approccio esclusivamente estetico al paesaggio), ma anche, dall’altro, di metterne in luce alcuni limiti. Questo almeno hanno tentato di fare Giorgio Vecchio Gabriella Gotti curatori del volume Il paesaggio violentato. Le due guerre mondiali, le persone, la natura in cui si raccolgono gli Atti del Convegno Internazionale organizzato da Istituto Alcide Cervi e Università di Parma a Palazzo del Governatore il 21 e 22 novembre 2018 e pubblicato da Viella nell’ambito della Convenzione Quadro attualmente in essere tra lo stesso Istituto e la nostra Università. “Il nostro approccio è inevitabilmente quello sereniano – spiega Vecchio. Leggendo le pagine della sua Storia del paesaggio agrario italiano emerge con assoluta evidenza una grande assenza tra i principali attori del cambiamento: la guerra. Forse per eccessiva vicinanza storica, forse solo per disinteresse, Sereni trascura completamente il ruolo che entrambe le guerre mondiali hanno avuto nella ridefinizione di molti dei paesaggi italiani e, ampliando la prospettiva, europei. Così ci siamo proposti di integrare l’analisi di Sereni, andando spesso oltre i soli nostri confini internazionali”. Ne deriva un volume strutturato attorno a tre grandi nuclei tematici: le trasformazioni fisiche che la guerra impone al paesaggio, la vita degli animali in guerra e il cambiamento di percezione del paesaggio nella popolazione.

Un paesaggio annientato: dalle dolomiti a Lidice

Tanti sono i temi trattati nel volume, che raccoglie la gran parte dei saggi presentati al Convegno del 2018. Tra tutti, emerge senza dubbio l’attenzione alle modificazioni subite dal paesaggio a causa delle devastazioni delle guerre. Un paesaggio violentato, annientato, talora in modo indiretto, altre volte con esplicita volontà distruttrice. Si passa così dalle trincee dolomitiche all’altopiano di Asiago, sede di logoranti scontri di trincea nel corso della Grande Guerra. Da Monte Sole a Oradour, fino a Lidice, esempi, questi ultimi, di pianificata devastazione nazi-fascista. Basti citare, a titolo di esempio, proprio il caso di Lidice studiato da Salvatore Trapani. Questa piccola cittadina della Repubblica Ceca, ad una ventina di chilometri da Praga, fu letteralmente rasa al suolo dagli occupanti tedeschi il 10 giugno del ’42,  a seguito dell’attentato delle forze partigiane ceche di cui rimase vittima Reinhard Heydrich, gerarca nazista, braccio destro di Himmler: nel giro di poche ore la città fu completamente cancellata dalle carte geografiche. Oggi sul luogo rimane soltanto un monumento eretto nel giugno del 2000 a ricordo dei 99 bambini vittime delle strage, mentre il paese è stato ricostruito a qualche chilometro di distanza a mantenere la sacralità del luogo profanato.

Il monumento ai bambini di Lidice

Caso in parte simile è quello di Val Grande, oggetto dello studio di Giorgio Vecchio, incastonata tra ripide catene montuose a nord del Lago Maggiore e da secoli sfruttata da agricoltori e boscaioli. A partire dal’43, essa divenne punto nevralgico della resistenza partigiana piemontese. Proprio per questa ragione nel giugno del ’44 qui furono indirizzate diverse ondate di rastrellamenti nazifascisti. Un trauma da cui la valle non si rialzerà mai più: abbandonata dall’uomo (si contano solo 17 abitanti, dispersi tra le varie frazioni), entrò a fare parte del Parco Nazionale della Val Grande e del Monte Mottac, oggi unanimemente riconosciuta come riserva della wilderness in cui le vestigia dell’antica presenza antropica sono completamente riassorbite nel ciclo della natura. Ecco così che la montagna, per secoli fonte di sostentamento di intere famiglie, torna ad essere un luogo apparentemente sacro, inaccessibile all’uomo.

Bestie da soma e da macello

Altro ambito di interesse del volume, è l’attenzione al mondo animale che, sulla scorta della moderna storiografia, è studiato non più come oggetto passivo, ma come soggetto attivo, in grado di influenzare le attività umane. Possiamo quindi citare da un lato gli studi di Emanuele Cerutti sul ruolo degli animali da soma, dai cavalli ai muli, fino al proverbiale “piccione viaggiatore”, nel corso delle guerre e dall’altro l’interesse di Massimo Zaccaria sullo sfruttamento intensivo del bestiame per finalità alimentari: gli animali, specie quelli provenienti dalle colonie, letteralmente trasformati in carne in scatola. Del tutto innovativa, infine, la prospettiva adottata da Bruno Ronchi che analizza gli effetti della Grande Guerra sulla (mancata) riproduzione del bestiame, con conseguente estinzione di molte razze.

Alpini italiani e muli per la Campagna di Russia

Popolazioni post-belliche

Ultimo ambito di interesse del volume è la relazione tra paesaggio e popolazione, a partire dai noti casi di studio delle traumatiche conseguenze per la popolazione venite-friulana della disfatta di CaporettoFabio Verardo analizza, infine, la cosiddetta Operazione Ataman, tentativo di occupazione da parte delle forze cosacche associate alla Wermacht della zona della Carnia, per fondare una Kosakenland in Norditalien (ovvero una Terra dei cosacchi nell’Italia settentrionale).

Paesaggio e democrazia

Filo conduttore dell’intero volume, che si dipana tra i molti casi di studio presi in esame, è dunque il paesaggio. “Un paesaggio- spiega Alessia Morigi, docente di Archeologia e Urbanistica dell’Università di Parma- inteso come sede primaria dellautorappresentazione, forma che l’uomo plasma nella sostanza materica e ambientale sulla base dei propri valori morali e culturali“. Ecco così che il paesaggio assume un fondamentale ruolo di carattere etnico e identitario, prestandosi spesso a mistificanti trasformazioni: basti pensare alla campagna di scavi condotta dal regime fascista per riportare alla luce un’identità fittizia a scapito di quella reale della città, costruita dalla stratificazione storica. Un esempio, questo, che ci permette un collegamento alla modernità, dalle distruzioni perpetrate dall’IS a Palmira, fino alle nefaste conseguenze sul paesaggio del totale disinteresse delle gerarchie militari, che ha portato alla rovina (diretta o indiretta) di molte delle caratteristiche pagode del Myanmar. “Alla base di questa visione distorta del paesaggio– spiega ancora Morigi- vi è l’idea che il paesaggio abbia intrinsecamente un proprio valore, quando in realtà questo non può che derivare dalla complessità della stratificazione storica che lo trasforma in un palinsesto. In questo senso -prosegue- l’archeologia è una disciplina quanto mai ancorata al presente e ad una visione critica della società contemporanea: un paesaggio, anche quando violentato e distrutto da conflitti e soprusi, può, dopo qualche anno, diventare la base su cui fondare una (ri)costruzione identitaria“.

di Filippo Pelacci

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