Il politically correct ha stancato
O forse No
Nelle scorse settimane ha fatto molto rumore il training program che Coca-Cola ha sottoposto ai suoi dipendenti, nel quale compariva lo slogan ‘be less white’. Ma cosa significa? L’obiettivo del corso di formazione era quello di promuovere l’inclusività, con particolare riferimento alla questione razziale, incentivando alcuni comportamenti e condannandone altri.
Il risultato è stato totalmente opposto: come si può vedere nell’immagine riportata sotto, la slide proposta per questo corso mostra che essere ‘meno bianchi’ consisterebbe nell’essere meno oppressivi, arroganti, ignoranti, ma più umili e propensi ad ascoltare gli altri. Una descrizione bella che stereotipata dei tratti della popolazione ‘bianca’. Ovviamente è stato un episodio isolato, uno scivolone atteso però a lungo da chiunque si batta contro il dilagante politically correct che domina le comunicazioni degli ultimi anni.
Non si può dare torto a chi, come la commentatrice americana Candace Owens, ha sottolineato in un tweet che, se la stessa retorica fosse stata utilizzata nei confronti della popolazione afroamericana – scrivendo ‘be less black’– probabilmente sarebbe scoppiato un putiferio. Innegabile. Ma la battaglia contro un’uscita fuori luogo non ha nulla a che vedere con la più generale questione del politically correct.
Il politicamente corretto sta iniziando a dare sui nervi a molti. O meglio, i paladini del politically correct iniziano ad essere indigesti. L’utente medio dei social è stanco dei perennemente indignati, di quelli che hanno sempre qualcosa da ridire su tutto. E inizia ad essere infastidito dalle pubblicità ‘buoniste’.
E allora uno dei punti principali attorno al quale si scatena il dibattito è proprio il fatto che i media e le grandi aziende sfruttino il politicamente corretto come strategia di marketing. Tradotto, “guardate che alla Nike (o chi per essa) non può fregar di meno del vostro colore della pelle o del vostro orientamento sessuale, tutto quello che vogliono è vendere il loro prodotto”. Allocchi che non siete altro. E chi lo avrebbe mai detto, grazie di averci illuminato. Veramente. E io che ho sempre creduto che le pubblicità fossero basate sugli ideali. Mai avrei detto che lo scopo ultimo fosse vendere il prodotto.
Credetemi, ci ero arrivato da solo. La pubblicità non deve essere credibile, deve piacere al maggior numero di persone possibili. E no, non diventerete dei ‘bomber’ radendovi con Gillette perché lo dice Vieri. È solo uno slogan, è solo pubblicità.
Però tutto sommato, restando nel campo del marketing, le nuove pubblicità-progresso non sono così male, no? Voglio dire, se anche le grandi aziende, ipocritamente o meno, promuovono l’uguaglianza a scopo di immagine non può che essere un bene. La classica win-win situation, vincono tutti. E, per inciso, nessuno vi obbliga ad acquistare i prodotti sponsorizzati.
Ma siamo davvero stufi della correttezza?
Il politicamente corretto viene spesso descritto con un’accezione negativa, quasi fosse una nuova forma di censura che si occupa di lavaggio del cervello in stile Istituto Luce. La verità è che ci stiamo abituando sempre di più a vedere il politicamente corretto – scusate il gioco di parole – come qualcosa di scorretto, che tarpa le ali alla libertà di espressione. Niente di più sbagliato: il suo significato intrinseco consiste sostanzialmente in un orientamento ideologico che ambisce al rispetto nei confronti di ogni categoria, con particolare riferimento a quelle più deboli. Non è un movimento politico. È uno strumento e, come tale, può essere utilizzato bene o male. C’è forse qualcosa di male nel soppesare i vocaboli che si utilizzano? Le parole hanno un peso e dovremmo averlo imparato. Fare ciò è quanto ci si deve aspettare da una società sviluppata come quella in cui viviamo.
“Eh ma non si può più dire niente!”
Balle. Non è assolutamente vero. Ricky Gervais, il celebre e dissacrante comico britannico, ha dato infatti a tal proposito probabilmente la definizione migliore della società in cui viviamo. Interrogato su questo tema, in risposta all’intervistatore che chiedeva se fossimo arrivati al punto in cui bisogni auto-censurarsi per sopravvivere nel mondo dello spettacolo, rispose “Non è assolutamente vero che non si può più dire niente, credo che viviamo nella società più democratica di sempre. Ad alcuni piacerà quello che dico, ad altri no, ma nei miei spettacoli ho la possibilità di parlare di quello che voglio”.
L’errore, pertanto, va cercato a monte: non tanto nell’esistenza di ciò che viene reputato ‘corretto’, quanto piuttosto nell’utilizzo ottuso che se ne si fa.
Vogliamo parlare allora della cosiddetta cancel culture? Per chi non lo sapesse, è la tendenza a valutare show del passato attraverso i canoni moderni di sensibilità, chiedendone quindi la cancellazione in quanto ritenuti dissacranti. Beh, sappiate che essa non è politicamente corretto, ma piuttosto un abuso che si fa dello stesso. Ancora una volta, quindi, la colpa non è della pistola, ma dell’assassino che la usa in modo improprio.
Quindi non veniteci a dire che siete stanchi del politicamente corretto. Non lo siete. Siete stufi delle persone idiote, di chi cavalca l’onda del consenso, di multinazionali gay friendly, eco-friendly, black-friendly e mille altri ‘friendly’, ma ai cui tavoli decisionali siedono sempre uomini bianchi in giacca e cravatta e non donne o persone di colore. Siete stanchi dell’ipocrisia. Perché se siete stanchi della correttezza il problema siete voi.
di Gabriele Diodati
A circa metà dell’articolo stavo per chiudere perchè temevo stessi alzando un muro a difesa del politically correct, ma ha ho fatto bene a finire la lettura.
Hai centrato in pieno il problema, è lo sfruttamento inappropriato del concetto il male, e l’ipocrisia e l’incoerenza dilaganti sono il male assoluto.