Baby gang: quando parlare di violenza è di tendenza

Parma fuori controllo? È davvero allarme Baby Gang? Ne parliamo con la sociologa Alexandra Francavilla, esperta in criminalità minorile. "Parlarne in modo esasperato non aiuta molto la situazione, anzi, si ottiene una risposta sociale differente, generando panico sociale e disinformazione"

Un nuovo trend sembra travolgere alcuni giovani a Parma, quello che si manifesta attraverso atti di violenza, spesso gratuita, nei confronti di coetanei e non solo. Un trend che tuttavia non è nuovo, non solo in città ma in tutta Italia. La cronaca cittadina parla però di allarme Baby gang.

Secondo l’Osservatorio Nazionale Adolescenza, infatti, il 6-7 per cento degli under 18 vive esperienze di criminalità collettiva, il 16 per cento ha commesso atti vandalici e tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. Partendo proprio da questo spunto vediamo quanto sta accadendo nella piccola cittadina, cuore dell’Emilia.

I Carabinieri di Parma hanno denunciato quattro ragazzi di età compresa tra i 15 e 17 anni responsabili di due rapine e due aggressioni, avvenute tra la fine di settembre ed inizio dicembre, nei confronti di coetanei in piazza Ghiaia. Inoltre, grazie a un’operazione sinergica coordinata dalla Procura insieme alla Polizia locale e ai Carabinieri di Parma, lo scorso giugno altri giovani sono stati individuati. Le loro vittime erano ragazzini di 14 e15 anni che venivano derubati e sopraffatti dai metodi violenti di ragazzi più grandi. Un ventenne è finito in carcere e altri tre ai domiciliari. Il modus operandi consisteva nell’avvicinare con un pretesto le giovani vittime, accerchiandoli e provocando confusione e paura prima di derubarli di portafogli o telefoni. Fermata dai Carabinieri anche una Baby gang di Felino: cinque minorenni che alla fiera di Collecchio, approfittando della confusione e del buio serale, aveva circondato e aggredito un gruppo di 13enni tentando di sottrarre orologi e cellulari. I commercianti del centro storico lamentano tuttavia una presenza costante di questi giovani problematici che intimidiscono i cittadini e i loro affari.

Per cercare di capire meglio quanto sta accadendo, e più nel particolare comprendere il fenomeno Baby gang e come si può affrontare, abbiamo intervistato Alexandra Francavilla, dottoressa in Sociologia e Criminologia presso l’Università di Chieti, con tesi di laurea in Sociologia del Territorio e Sicurezza Urbana, co-direttore generale di Sociologia Forense – Criminologia e Sociologia, esperta di criminalità minorile.

Esattamente, cos’è una Baby gang?

“Con il termine Baby gang ci si riferisce a un fenomeno di microcriminalità che riguarda ragazzi di età giovanissima, minorenni o neo maggiorenni, – spiega la sociologa forense – che si riuniscono in gruppo per compiere bravate e piccoli reati, dai furti alle rapine, dalle aggressioni agli atti vandalici.”

È opportuno tenere anche presente il contesto storico e sociale in cui viviamo, “che spinge i giovani a commettere azioni per il solo piacere di imitare personaggi famosi (ma non un buon esempio) o per mettersi in mostra”.

Sono proprio i social che hanno dato una grossa mano alla diffusione di questa realtà, portando a “uno spirito di emulazione, con l’obiettivo di condividere in rete tutto, di modo da diventare virali, famosi e acquisire popolarità”. È proprio sulle piattaforme social che ci si organizza, si litiga e ci si dà appuntamento in strada: succede nei fine settimana nei centri di alcune città italiane dove avviene la resa dei conti tra ragazzi che hanno avuto diverbi per motivi futili. “Un vero e proprio specchio di quella che negli ultimi è diventata la società, basata principalmente sulla necessità e voglia di apparire”.

Il contesto di questi ragazzi spesso è critico, dal punto di vista sociale, economico e familiare” spiega la sociologa. Un senso di abbandono da parte delle Istituzioni che sfocia in questi comportamenti. È proprio una ragazza di uno dei gruppi intervistati a Parma dai microfoni della trasmissione Mediaset Fuori dal Coro che, con poche ma importanti parole, fa comprendere le situazioni disagiate che vivono nel privato, cercando di giustificare le loro proprie azioni: “Per noi è normale fare ciò, veniamo da case famiglia…”

“I ragazzi stessi sentono di non avere futuro. Il problema dell’incertezza provoca disorientamento, portandoli a maturare l’idea di non aver nulla e, dunque, nulla da perdere” dichiara Francavilla. “È fondamentale guardare, infatti, a quello che in molti definiscono il branco’ e alla sicurezza che i giovani trovano in esso. Nella banda trovano famiglia, fedeltà, casa e lavoro.”

Molto spesso le Baby gang si compongono dai cosiddetti “italiani di seconda generazione”, ovvero figli di immigrati nati sul suolo italiano, ma che “sentono di appartenere poco alla loro casa. Il problema dell’integrazione sociale può considerarsi una delle cause del fenomeno stesso.”

Un problema che va affrontato a monte

Secondo l’esperta occorrerebbe “dare ai giovani l’opportunità di esprimersi e non considerarli, come spesso accade da parte degli adulti, come degli stupidi, che non hanno voce in capitolo neppure sulle proprie vite.”

Si avverte la necessità di lavorare con questi giovani consentendo loro un vero e proprio inserimento nella società. Spesso i baby sono – come abbiamo visto – giovani che si sentono a disagio nella comunità, esclusi e senza la possibilità di poter esprimere il proprio essere. “Occorrerebbe, perciò, da parte delle Istituzioni un impegno maggiore volto alla creazione di spazi di aggregazione, sia culturali che sportivi, ove i giovani possano sviluppare la propria personalità e coltivare interessi, avendo modo e mezzi per conoscere meglio se stessi. Ovviamente, pensare a ciò, con prevenzione, istruendoli alla legalità e al vivere in società, va fatto attraverso percorsi educativi. Altrimenti sono concepiti solo come oggetti da aggiustare” spiega ancora la sociologa.

Si guarda, ad esempio, a casi celebri come quello della palestra di Gianni Maddaloni – ex campione sportivo e maestro judoka – a Scampia. Una vera e propria ancora di salvataggio per tanti giovani di una realtà difficile, come quella di periferia. Un luogo che vede coinvolti ragazzi di età e estrazione sociale diverse, con lo scopo di sottrarli “alla strada” e offrire loro un futuro e una disciplina che possa essere d’insegnamento per la vita di tutti i giorni.

Di fronte a questa situazione che sembra diffondersi a macchia d’olio, generando di seguito terrore e malessere, ci si chiede anche se non sia sbagliato invece dar “troppa visibilità” a questi atti, aumentando così il loro ego e dando modo di mettere in luce le reali conseguenze che ne derivano.

“Credo che parlarne in modo esasperato, in realtà, non aiuti molto la situazione, anzi si ottiene una risposta sociale differente, generando anche panico sociale e disinformazione” afferma l’esperta.

La questione è sicuramente più complessa. Non certo, però, da sottovalutare, se si pensa al fatto che i giovani che compiono avventatamente tali gesti, saranno con molta probabilità, tra pochi anni, genitori e, dunque, gli adulti di domani. Viene anche da chiedersi: quando, effettivamente, i baby saranno in grado di comprendere realmente le conseguenze delle proprie azioni?.

La sociologa rimarca sul fatto che i giovani ne sono certamente consapevoli, sebbene non prevedano le conseguenze. Quello che preoccupa, però, è sicuramente l’approccio con loro. “È necessario dare il giusto peso alle loro azioni, proprio come accade con gli adulti, tale che gli stessi siano ben consci di ciò che li aspetta.”

La repressione di questi tipi di reati commessi dai minori merita di essere analizzata attentamente. “Il sistema di procedura penale minorile è diverso da quello ordinario, con pene ridotte e che mirano a non punire, ma a reinserire nella società. Non solo istituti penitenziari, ma sono previste anche altre forme più miti del carcere minorile, che vanno dalla custodia presso la casa dei genitori fino al trasferimento in una comunità, oltre all’istituto della ‘Conciliazione’, finalizzato alla sensibilizzazione e alla responsabilizzazione affinché il minore prenda coscienza della lesione arrecata all’altrui diritto e possa riparare direttamente al danno procurato alla parte lesa.”

Come si evince, il sistema giudiziario minorile nonostante abbia adottato queste misure, non riesce fino in fondo ad ottenere i risultati sperati. Questo perché le pene a volte sono troppo esigue, e specie perché nei giovani si riscontra un senso di sfrontatezza, di onnipotenza, di fronte alla legge. Questi sono ben consci che il fatto di essere minorenni impedisce nei loro confronti l’applicazione di misure severe come quelle degli adulti, e nei casi in cui si verifica ciò, la durata di queste è, come abbiamo detto, molto ridotta.

Francavilla, proprio a tal proposito, però ritiene che sia “fondamentale il recupero del giovane, ma bisogna distinguere i trattamenti tra quelli riservati a lui e a un adulto. Questo principalmente perché un ragazzo ha più possibilità di rieducazione rispetto all’adulto e deve – soprattutto – avere questa possibilità, non vedendosi negata l’opportunità di reinserirsi nella società, a partire dal mondo del lavoro a quello delle relazioni interpersonali.”

“Indurre a imparare dai propri sbagli” è la prerogativa degli esperti

Cosa si può fare, dunque? Parma non ci sta. La preoccupazione dei parmigiani è comprensibile: non si ha voglia di far passare, pubblicamente, la propria cittadina come “quelle realtà storicamente ostaggio di malavita e della violenza” – afferma Claudio Rinaldi, nel suo editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma. Una realtà, invece, che da molti anni coinvolge l’intero territorio nazionale, da Nord a Sud.

In passato, di fronte ai primi segnali di tali atteggiamenti giovanili, si era provveduto ad adottare prontamente le giuste misure, attraverso il presidio fisso delle Forze dell’ordine nel centro storico o dove generalmente i giovani si riuniscono.

Quello che si evince e che appare evidente è che le Istituzioni giochino un ruolo fondamentale, commettendo, però, sempre lo stesso errore: parlare dei giovani, ma non con i giovani.

di Carmela Fusco

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