Cloe Bianco, vittima della società senza giustizia

Il suicidio dopo essere stata abbandonata dalle istituzioni e dalla comunità solo perchè voleva sentirsi donna. In vita non è stata ascoltata ma invitata al silenzio con il benestare del Tribunale di Venezia. Una storia che racconta una profonda ferita della nostra società, che ancora opprime e nega le diversità

Tutto ebbe inizio nel 2015 quando, per la prima volta, entrò nell’aula dell’istituto agrario Mattei di San Donà di Piave, in provincia di Venezia, in cui doveva tenere lezione. Vi entrò in abiti femminili, facendo coming out ed annunciando ai suoi studenti il suo percepirsi donna. Quel passo cambiò la sua vita.

Cloe fu da subito vittima di attacchi da parte di alcuni genitori, uno dei quali scrisse una sorta di lettera aperta su Facebook, condivisa in seguito dall’allora Assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, da cui emersero alcune considerazioni personali dell’autore che, tra le altre cose, definì l’atto della professoressa una “carnevalata” segno di una scuola, a suo dire, mal ridotta: “Forse questo è un fatto “normale” per tanti ma non per noi che viviamo quei valori che ci sono stati donati e che all’educazione dei nostri figli ci teniamo lottando quotidianamente bersagliati ogni giorno da chi quei valori vuole distruggere, teorie gender e quant’altro. Ecco, ho voluto metterla al corrente di quanto accaduto sperando che con il suo ruolo di assessore alle Politiche dell’Istruzione possa fare qualcosa perché in futuro queste cose non accadano più”, conclude l’autore.

In seguito qualcosa accadde realmente visto che il giorno successivo la docente subì una sospensione di tre giorni; Bianco fece ricorso ma lo perse, il presidente del Tribunale del lavoro di Venezia, pur “senza voler criticare una ‘legittima scelta identitaria’, sognata da Bianco dall’età di 5 anni”, stabilì che la sospensione “era giusta” perché l’outing in così breve tempo, senza preparare adeguatamente le scolaresche, non era stato “responsabile e corretto”. Questa fu la prima di una serie di umiliazioni che dovette subire. Quando fu reintrodotta a scuola le venne impedito di insegnare, rendendo vani anni di studio, fatica e sacrifici, relegandola invece a compiti di segreteria. Iniziò allora a curare un blog e scrisse il libro PERsone TRANSgenere. Manifesto e Progetto della dignità e dei diritti delle persone transgenere in Italia. Si allontanò da tutti, iniziò a vivere in un camper, sul quale pochi giorni fa è stata trovata morta, in seguito al suicidio. Atto, tra l’altro, annunciato sul suo blog.

Un grave problema educativo

Questa, in sintesi, la storia di Cloe Bianco. Tuttavia merita attenzione il contesto che l’ha circondata poiché è proprio a partire da questo che ci si deve fare una domanda: come è possibile che in una società che vuole essere democratica, accogliente ed inclusiva si verifichino ancora casi come quello descritto poco fa? Accettare la propria identità, decidere di non opprimerla e decidere di vivere la propria vita serenamente, al meglio delle proprie possibilità non mascherandosi ma, anzi, esprimendo totalmente il proprio sé dovrebbe essere percepito come un atto di grande forza, consapevolezza e coraggio. Ciò che ci si aspetta è supporto e rispetto.

Insomma, non chiedeva nulla se non il medesimo trattamento ricevuto quotidianamente dai suoi colleghi. Tuttavia a Cloe ciò non è stato concesso, anzi, è stata abbandonata da chiunque ed a qualunque livello, istituzionale e sociale: la scuola in cui esercitava la sua professione l’ha trattata come un ‘pericolo’, invece di evidenziare l’impatto fortemente educativo che poteva avere il suo gesto, perché indipendentemente dalla materia che un docente è tenuto ad insegnare va ricordato che lo scopo primario della scuola deve essere quello di essere luogo educativo in cui gli studenti, oltre ad ottenere certamente gli strumenti necessari per crescere culturalmente, psicologicamente e socialmente ed acquisire un certo grado di responsabilità e autonomia, devono essere formati alla vita democratica ed alla cittadinanza, all’inclusività, all’accettazione dell’altro, alla comprensioni delle diversità, dei diversi punti di vista ed esperienze.

Quello che invece è accaduto al Mattei è esattamente l’opposto: una persona è stata sospesa, degradata e lasciata sola soltanto perché ha deciso di essere se stessa. Non la si è difesa né tutelata, l’istituto ha deciso che la ragione stava dalla parte di quel genitore che definiva tutto ciò una ‘carnevalata’, come se compiere il difficile passo di essere se stessi, di amarsi ed esporre il proprio sé – peraltro in una società chiusa come la nostra – invece di opprimerlo fosse paragonabile ad indossare la Baùta al veglione veneziano.

Agli studenti di quell’istituto è stato trasmesso un messaggio chiarissimo: chi è diverso va messo in silenzio, isolato, represso. E se tra quegli studenti vi fosse stato un membro della comunità lgbtq+, magari in una fase della propria vita in cui fare pace con se stessi è tutto fuorché facile? Cosa avrebbe potuto pensare? Allo stesso tempo, se vi fosse stato uno studente intenzionato a prendere la difesa della docente? La scuola qui non ha dato il messaggio di poter parlare, esprimersi ma, al contrario, ha trasmesso con forza un messaggio di oppressione e negazione di qualsiasi forma di diversità.

Le colpe delle istituzioni

La questione però non si ferma qui, ma anzi si dirama anche in altri ambiti collegati e non con l’ambito prettamente scolastico; come detto, la lettera scritta pubblicamente su Facebook da un genitore di uno degli studenti della Bianco è stata condivisa dall’assessore all’istruzione Elena Donazzan, esponente di Fratelli d’Italia. Come visibile sul sito web della Regione Veneto tra le competenze che appartengono a questa carica figurano anche “politiche per il lavoro, pari opportunità” ma, l’esperienza di Cloe lo mostra chiaramente, questi compiti non sono stati puntualmente eseguiti: sospendere, degradare ed emarginare una persona nel pieno delle sue facoltà e nelle condizioni di poter svolgere il proprio lavoro soltanto in forza di una presa di coscienza è quanto di più distante vi sia dalla definizione di ‘pari opportunità’.

Non che l’assessore Donazzan sia la diretta responsabile di quanto accaduto ma, certamente, condividere certe affermazioni ricoprendo una carica rilevante può aver avuto senz’altro un certo peso nelle svolte che questa vicenda ha preso. Inoltre quelle parole potevano essere utilizzate come mezzo per smarcarsi da certe affermazioni, mostrando invece pieno sostegno a chi, in quelle ore, era vittima di attacchi e discriminazioni. Questa situazione venne inoltre complicata maggiormente dalla sentenza del Tribunale di Venezia: dopo aver fatto ricorso la professoressa Bianco venne colpita ancora più nel profondo, trovandosi così ancora più sola. Abbandonata inizialmente dalla sua scuola, attaccata pubblicamente da un genitore col supporto dell’assessore regionale all’istruzione, infine non riconosciuto il ricorso presentato contro la sospensione scolastica, vedendosi riammessa a scuola ma solo con compiti di segreteria, ‘nascosta’ in qualche ufficio.

Cloe Bianco è stata abbandonata e non è stata nemmeno tutelata dalla legge. Sentire pronunciare una sentenza in cui si viene definiti poco responsabili e corretti nei confronti di studenti e colleghi e pensare che questa ‘slealtà’ sia legata alla sfera personalissima dell’io, dell’autopercezione è sicuramente causa di una ferita che difficilmente si rimarginerà.

Poca correttezza e responsabilità, termini forti con cui si è scelto di definire una persona: quello che va evidenziato è che l’atto di mostrarsi con vesti femminili, se con quelli indosso ci si sente felici, e scegliere di farsi chiamare Cloe non possono essere ridotti ad una dimensione di aspettative sociali, è impensabile vivere una vita in un corpo che non si sente nostro, con un nome che non ci appartiene, con abiti che non fanno stare sereni soltanto per sopravvivere.

Tuttavia questa brutta vicenda lascia proprio questo dietro di sé, lascia la sensazione che stare zitti e reprimersi sia la strada più comoda per tirare avanti negli anni: ma non è così e la testimonianza di Cloe deve farci riflettere. A livello statale, sociale, comunitario ci si può raccontare che si punta ad essere uno stato progressista, accogliente, per tutti ma finché vi saranno ancora storie come queste allora avremo fallito. Questa non è la storia di una persona che, di punto in bianco, è impazzita e si è buttata giù da un palazzo, questa è la storia di una persona che ha scelto di essere semplicemente se stessa e che ha ricevuto, come unica risposta, ovunque si girasse, “no, vai via”. Questa è la storia di una persona che si è rifugiata su un camper, vivendo sola lontano da chiunque, col suo blog come unica compagnia e valvola di sfogo.

Recentemente, proprio riguardo questa vicenda, Vladimir Luxuria in un’intervista si è così espressa: “Bianco è stata lasciata sola dalle istituzioni e dai sindacati. Hanno detto che il suo coming out era stato ‘troppo violento’. Chi può arrogarsi il diritto di insegnare a una persona come affermare se stessa? Le hanno praticamente detto che una donna come lei non poteva insegnare. Per una docente che ama fare il suo lavoro questa è una vera e propria condanna a morte, un’induzione al suicidio della quale ha parlato nel suo blog”.

Dalle parole…ai fatti

Recentemente il ministro D’Incà si è espresso sulla vicenda “una storia terribile che impegna ognuno di noi a non voltarsi dall’altra parte e a lavorare per costruire un Paese realmente inclusivo e senza pregiudizi”. “Una storia di sofferenza, emarginazione, diritti negati e solitudine che nessuno è stato in grado né di capire, né di risolvere attraverso il sostegno e la comprensione di cui Cloe aveva chiaramente bisogno. L’auspicio è che ognuno si senta libero di esprimere la propria sessualità e la propria affettività pienamente e senza alcuno stigma”, conclude il ministro. Il grande problema sta proprio nel fatto che nessuno è riuscito a intercettare le sofferenze che accompagnavano costantemente Cloe, arrivata a dire “Non faccio neppure pietà, neppure questo” al termine di uno degli articoli presenti sul blog, un’affermazione forte ma che fa davvero capire come si sentiva, non solo abbandonata ma nemmeno degna di pietà. L’esito di questa vicenda è ormai noto, in seguito alla pubblicazione del suo testamento olografico si è suicidata dando fuoco al camper in cui viveva.

Le ultime parole però saranno quelle di Cloe, donna che in vita non è stata ascoltata ma che più volte è stata invitata al silenzio “in quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto.”

di Francesco Capitelli

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