La valorizzazione delle varietà agricole locali. La visione del dott. Carboni

"Il patrimonio genetico di una coltura dovrebbe essere di tutti". Intervista al dottor Mauro Carboni, agronomo e vice-direttore di Equa srl, sull'agricoltura sostenibile

Nell’universo agricolo globale, le varietà vegetali locali, chiamate anche cultivar tradizionali, rappresentano un patrimonio sottovalutato ma di fondamentale importanza. Queste varietà, frutto di secoli di selezione naturale e pratica agricola, sono adattate specificamente al suolo, al clima ed alle pratiche colturali del luogo dove si sono sviluppate. Nel corso del tempo, molte di queste varietà sono scomparse, o ne sono a rischio, a causa della crescente omogeneizzazione delle colture e dell’adozione di varietà commerciali più standardizzate.

La necessità di far conoscere e preservare le varietà vegetali locali è diventata sempre più urgente. Queste piante contribuiscono anche alla diversità genetica, essenziale per la resilienza dei sistemi agricoli. La loro preservazione deve essere quindi fondamentale per promuovere una agricoltura sostenibile. Di questo e di altri temi legati all’agricoltura sostenibile ne parliamo in questa intervista con il dottor Mauro Carboni, agronomo, vice-direttore di Equa srl e consulente per la realizzazione di frutteti e vigneti di antiche varietà locali parmensi.

Le varietà vegetali in Emilia Romagna

“C’è molta varietà, anche perché è una zona di passaggio, grazie alla presenza della Via Francigena. – spiega Carboni – L’Italia in generale, a causa delle sue caratteristiche olografiche, favorisce molto l’insorgere di varietà spontanee differenti da una valle all’altra. Ciò riflette le differenze culturali che si sono consolidate nel corso del tempo. “


Ci si chiede se queste varietà siano spontanee o nate per selezione. “La varietà nasce per caso. Non ci sono sempre stati i genetisti. Una determinata pianta viene osservata, raccolta e solo dopo mantenuta per selezione. L’agrobiodiversità è questo: conservazione nel tempo di una varietà di origine ignota, che si consolida nel territorio, passando da agricoltore ad agricoltore, e facendo nascere culture e tradizioni. Una volta si trattava anche di necessità alimentari. Noi siamo una generazione che non ha patito la fame, ma anche solo 50 anni fa la funzione dell’agrobiodiversità era generare appunto varietà che sfamassero di più e che crescessero in condizioni impervie. Oggi questo discorso è portato all’estremo“.

Biodiversità ed agrobiodiversità, un’incomprensione terminologica

Il termine “biodiversità” è abusato. L’agrobiodiversità è una parte della biodiversità, che tratta quelle forme di vita che sono legate ad una antropizzazione del territorio di tipo agricolo. “Sono quindi legate ad una tradizione, e da lì selezionate, coltivate e/o allevate (poiché si parla sia di vegetali che di animali)“ spiega Carboni.


“La biodiversità in senso stretto è stata anche tanto combattuta dall’uomo, che ha sempre cercato di crearsi un mondo attorno che fosse il più semplice possibile. Invece, la natura è caos ed eterogeneità. L’uomo, nella sua limitatezza, ha bisogno di antropizzarla fino ad esasperarla. L’agrobiodiversità è la rappresentazione del mondo creato dall’uomo, è di fatto un ecosistema che prima non esisteva. Possiede anche delle razze, quindi della varietà altamente selezionate, che in natura non esisterebbero. Un esempio nostrano: la Violetta di Parma, natale del profumo Acqua di Parma, prediletta da Maria Luisa d’Austria, individuata dai botanici nel 1600. Questa pianta è un ibrido che in natura non esisterebbe. L’uomo poi ha la responsabilità di salvare queste forme e di salvaguardarle“.

I problemi attuali dell’agricoltura

La selezione artificiale esiste da quando l’uomo ha iniziato a praticare l’agricoltura e l’allevamento. Tuttavia, da tempi non troppo remoti, quest’attività hanno portato conseguenze nefaste, come l’erosione genetica (intesa a livelli preoccupanti per l’integrità della specie primaria) e la prevaricazione di specie invasive, per alcune varietà agricole.


“Ci sono due momenti peculiari che hanno caratterizzato questi due aspetti. – commenta Carboni – Per l’erosione genetica è stato l’avvento della meccanizzazione e la specializzazione agricola, eventi che sono iniziati dalla fine del ‘800 e che sono aumentati nei tempi a seguire. Il trattore ed il suo avvento hanno sconvolto le precedenti logistiche sulla salvaguarda del terreno. Il termine parmense ‘biolca‘ deriva dal volgare ‘bifolco‘, che una volta identificava l’agricoltore. La biolca identificava una porzione di terreno di circa 3000 metri quadri, un’unità di divisione che corrispondeva alla superficie agricola che un uomo era in grado di coltivare in una giornata. Oggi, grazie alla meccanizzazione, un uomo da solo è in grado di lavorare superfici di terreno molto più estese ed in modo molto più efficiente. Ciò ha stravolto anche la società, poiché servivano molte meno persone per lavorare. Il trattore ti dà efficienza e quantità, ma sacrifica la qualità, poiché erode il terreno più rapidamente. Per la prevaricazione delle specie aliene, ha influito ampiamente lo sviluppo dei trasporti”.

Si stava meglio quando si stava peggio, davvero?

Il concetto di ‘sostenibilità’, e di conseguenza quello dell’agricoltura sostenibile, è cambiato col tempo, con le necessità di ogni generazione. Oggi è molto sentito, ma prima di ora, dagli anni ’70 in poi, non c’era molto interesse.


“Negli anni ’20 venivano enfatizzati i fertilizzanti chimici e la meccanizzazione. – spiega il vicedirettore – Quelle innovazioni in quel momento erano necessarie, figlie del loro tempo. Praticamente l’opposto di oggi. Il discorso non è cosa sia giusto o sbagliato. E’ l’uomo e come usa gli strumenti che ha disposizione a renderli positivi o negativi. E purtroppo, su questo, l’uomo tende sempre ad esagerare“.


Ci si chiede come si possano fare scelte più sostenibili nella vita di tutti i giorni. La risposta del dottore è molto chiara, e non prevede l’abbandono della meccanizzazione.


“Dobbiamo imparare dal passato. – spiega – Negli anni ’70 ci si vergognava ad essere agricoltori. Oggi abbiamo rinnegato secoli di storia da un giorno all’altro, creandoci un mondo dove contano solo i servizi e la tecnologia. Ciò ci ha portato ad una situazione difficile dal punto di vista ambientale. Dobbiamo cambiare modus operandi e fare un’agricoltura più rispettosa della natura. Usiamo il trattore, sì, ma tenendo conto di quanto possa impattare; non uccidiamo per forza tutti i parassiti, facciamo colture diversificate e non solo monocolture. Per essere più sostenibili le soluzioni sono innumerevoli, ma molto si dovrà fare nelle scuole. Una generazione che è troppo abituata ad una determinata situazione farà troppa fatica per riuscire a cambiare in tempi utili“.


Ci si chiede perché, se le soluzioni ci sono, il problema sia ancora lungi dall’essere risolto. Se si tratti di resistente governative, industriali o sociali. “Ci sono tanti freni a cui dobbiamo sottostare. – racconta Carboni – Ci sono stati degli enti legati alla produzione che hanno spinto verso una certa direzione commerciale, ed ora è difficile tornare indietro. Per esempio la messa in vendita di pomodori solo ibridi, in modo che i semi germoglino ma non diano frutti, e il consumatore debba continuare a comprare il pomodoro al mercato. Un altro esempio che riguarda specificatamente l’agro-biodiversità: trovo una varietà vegetale peculiare, per esempio, una vite che si credeva estinta. Dall’analisi del DNA risulta autoctona di quella zona. La posso coltivare? No, perché la legge lo vieta: le varietà di vite coltivabili devono essere iscritte a un registro nazionale, istituito negli anni ’70, e che considera solo le varietà moderne. Basterebbe cambiare quella legge, aggiornare il registro, e spingere maggiormente il commercio verso varietà locali a chilometro 0, che possono essere coltivate da chiunque voglia farlo“.

di Carolina Signorelli

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