Il passo felpato del goleador

SE LA POLITICA LA SI SCRIVE SUL PETTO

Salvinidi Michele Guerra, docente di Storia del cinema americano | 

Matteo Salvini porta quei felponi con le scritte grandi, che qualche anno fa avevo visto indossare anche da Lapo Elkann. La felpa, per un certo numero di anni, è stato qualcosa che ti respingeva indietro nel tempo, ti rimandava sui banchi di scuola, o magari in gita domenicale. Non è tuta, ma è comunque sport. Quella di Lapo me la immaginavo costosa, ça va sans dire, sapeva di jet set solo perché portata da lui, magari aperta con sotto la cravatta. Sopra c’era scritto FIAT, enorme. Erano proprio sue, la felpa e soprattutto la Fiat, anche se non ne aveva meriti, né colpe. Poi se ne sono viste altre di quelle felpe con le grandi scritte e coerentemente ci leggevi sopra CORTINA e io pensavo che fosse stata colpa di Lapo Elkann e mi aspettavo di vedere prima o poi comparire un felpone con scritto LAPO, che in un sol colpo avrebbe condensato FIAT, CORTINA, jet set paleocapitalista di un’ITALIA che non c’è (più). Poi un giorno è successa una cosa strana. Vedo una felpa rossa che aveva sempre scritto FI sul lato destro, ma sul sinistro OM al posto di AT. Sotto non spuntava la cravatta, ma uno di quei camicioni a quadrettoni di paese e in più c’era un cappuccio, che sa sempre di contestazione. Al posto del volto di tinta incerta di Lapo, c’era quello incazzato di Maurizio Landini. La felpa ora non mi sembrava più costosa e non sapeva più di jet set paleocapitalista di un’ITALIA che non c’è (più), ma di fabbrica e operaismo di un’ITALIA che non c’è (più). Landini avrebbe convinto anche Susanna Camusso a indossare la felpa con scritto FIOM e Maurizio Crozza avrebbe convinto Urbano Cairo a comprarne uno stock per indossarle ogni tanto nel suo Paese delle Meraviglie.

Insomma, se vuoi esprimere un senso di appartenenza, devi scrivertelo sul petto e se non sei pronto a fartelo tatuare (e poi stare a torso nudo), la felpa è il massimo. In questo sì, supera senz’altro il maglione. Matteo Salvini l’ha capito. Su una c’era scritto Milano, che non gli appartiene come vorrebbe, ma che comunque rimanda a un’ITALIA moderna e frenetica che non c’è (più). Poi Matteo apparve con una felpa LOMBARDIA, con una più enigmatica ADER (che poi si rivelò felpa solidale con il sindaco di Adro) e poi VENETO, FRIULI, PIEMONT (senza “E”), EMILIA e ROMAGNA (due felpe diverse, secessioniste) e poi addirittura e provocatoriamente ROMA e infine PARMA, ma scritto in verticale, sulla metà di destra, un unicum che ci distingue dagli altri e un po’ ci fa piacere. Ora, Salvini è un grande comunicatore e ha capito che l’uomo politico va connotato in qualche modo, serve un attributo con cui accompagnarsi, che resti scolpito nella mente di chi guarda e legge (le lettere delle felpe sono a prova di ipovedente). Altri hanno indossato camicie bianche dalla maniche arrotolate dai plurimi significati, altri ancora bandane da un solo significato. Ha fatto una buona scelta Salvini che, attenzione, non è lo zotico ignorantone che qualche finissimo politologo vorrebbe: la felpa a chiare lettere unisce l’ITALIA da Lapo a Landini. E anche se mi è a volte balenato in mente che il leader della Lega portasse le felpe per ricordarsi dov’era e inserire nel discorso il nome della località giusta, resta il fatto che esiste il profilo Twitter @felpasalvini e che chi si intende di sociologia sostiene non solo che la comunicazione “local” via felpa sia estremamente impattante nel mare di virtualità che ci circonda (felpa + iPad, però, ricordiamolo), ma che Matteo ne abbia già una nell’armadio con scritto PALAZZO CHIGI (magari su due righe).

Ora quando vedo quelle felpe, non penso più che significhino appartenenza a qualcosa, o che qualcosa appartenga a te. Penso che funzionino come quei trilli fastidiosi che mentre guardi una partita in Tv ti costringono a spostare lo sguardo sullo sponsor che irrompe in basso a sinistra. Però resta il fatto che Salvini in felpa sta bene, sembra un amico che in trattoria ti diverte con battute un po’ grossolane e pesanti: se gli vuoi bene ridi a crepapelle, se è il tuo rivale in amore, per dire, il tuo nemico, ti scappa un ghigno nel profondo, ma non gli dai soddisfazione. Se fossi Gaber direi che già non temo Salvini in sé, ma Salvini in me.

Poi Berlusconi, forse vedendolo così felpato e con l’orecchino, e forse perché messo di fronte all’irreparabilità del gol segnato dal leader leghista, lo ha definito il goleador di cui il centrodestra ha bisogno. Più che un top player di quelli che hanno le grandi squadre della Champions League, sembra uno di quei bomber di provincia di cui non riconosci bene le doti – poca corsa, niente acrobazie, tecnica trascurabile – e che però segnano da tutte le parti. Non so perché mi viene in mente uno alla Cristiano Lucarelli, che sono certo si offenderebbe del paragone (ma per ragioni ideologiche, non calcistiche). Silvio si candida al ruolo di regista, di playmaker privo di scatto, ma che ancora potrebbe strabiliarti giocando da fermo. Raffaele Fitto prova a alzarsi dalla panchina e dice che lui non farà il gregario di nessun Matteo, ma qualcuno gli fa notare che i due Mattei hanno già detto di non volere zavorre. Siamo dentro una storia di felpe e calciatori, orecchini, iPad, grandi scritte e tifo da stadio. Valerio Magrelli, in un libro di struggente malinconia intitolato Addio al calcio, lo direbbe Peri-Calcio, o magari Pan-Calcio: quella “dimensione assoluta e illimitata di cui la partita rappresenta ormai solo una parte infinitesimale”, o quell’idea di calcio totale che “colonizza la mente del tifoso non solo la domenica, ma tutti i giorni della settimana”. L’importante non è giocare, è piacere. E per farlo bisogna tagliare i ponti con il passato, qualunque esso sia. Quando poi però la partita comincia, se l’assist te lo fa il vecchio playmaker, nessun Matteo di razza e che si rispetti sa resistere all’istinto del gol.

 

1 Commento su Il passo felpato del goleador

  1. Complimenti, una piacevolissima lettura.

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