Gruppi Telegram e stupro virtuale: quando impareremo a parlare di Revenge Porn?

LA LEGGE DA SOLA NON BASTA, IL REVENGE PORN SI COMBATTE ANCHE ATTRAVERSO CULTURA E PRESA DI COSCIENZA COLLETTIVA

Se negli ultimi giorni avete aperto un qualsiasi social network, vi sarete quasi certemente imbattuti in almeno un post riguardo alla sconvolgente vicenda dei gruppi italiani di Revenge Porn su Telegram. La questione è stata (ri)portata alla luce dall’ormai virale inchiesta di Wired.it: più di 43mila uomini coinvolti in chat innegianti allo stupro e alla condivisione/compravendita di immagini pornografiche di donne e, nei casi più gravi, persino di minori. Immagini private di ex fidanzate, mogli, figlie o conoscenti, pubblicate senza alcun tipo di consenso da parte delle persone coinvolte e accompagnate da commenti che definire svilenti sarebbe oltremodo riduttivo. Accanto a queste, anche fotografie rubate da profili Instagram o Facebook di ragazze sconosciute, in alcuni casi appositamente modificate tramite fotomontaggi pornografici e poi reinviate alle dirette interessate, con tanto di messaggi intimidatori.

Ora, dando per assodato l’estremo livello di degrado umano e culturale presente nei gruppi citati, oltre che la natura assolutamente criminale della diffusione di immagini altrui senza preventivo consenso, credo che valga la pena ragionare su alcune delle reazioni che tutta questa ignobile faccenda ha suscitato a livello di opinione pubblica. In antitesi alle durissime condanne di cui sono stati teatro i social, infatti, si leggono ancora troppi commenti ignoranti, volti a sminuire la portata del fenomeno o, nel peggiore dei casi, a giustificarlo più o meno velatamente. Questo conferma ancora una volta come ci illudiamo quando pensiamo che storie simili siano semplicemente frutto del marciume di singoli individui disturbati: il problema è ben più radicato ed è da ricercarsi in un background culturale malato di cui tutti noi, volenti o meno, abbiamo fatto parte almeno una volta nella nostra vita. Ma andiamo per ordine.

C’è un primo punto cruciale che necessita di essere chiarito: gli uomini non sono animali incapaci di controllare i propri impulsi, anche se spesso vengono dipinti così. Pare un concetto banale da sottolineare, eppure in molti sembrano non averlo ancora afferrato. Quante volte avete sentito dire o avete pronunciato voi stessi frasi come quelle riportate nei commenti qui a fianco? Ogni essere umano, indipendentemente dal sesso biologico con cui viene al mondo, è dotato di controllo, di libero arbitrio e di capacità di discernere giusto e sbagliato. Negarlo apre la strada a scenari piuttosto problematici. Chi partecipa a quelle chat lo fa per scelta (pur con diversi livelli di consapevolezza), non perchè vittima dei propri impulsi o perchè incapace di controllarsi e di comportarsi come un essere umano decente. Abbandoniamo l’idea che chiedere ad un uomo di non condividere le foto private di una sua ex sia come pretendere che un bambino non mangi le caramelle che gli sono state messe davanti. Il Revenge Porn non è una bravata che due stupidotti attuano tanto per, senza rendersi conto delle possibili conseguenze delle proprie azioni: stiamo parlando di un vero e proprio reato e della possibilità di distruggere completamente la vita di una persona. Qualcuno per caso si ricorda ancora di Tiziana Cantone?

Un ulteriore punto risulta particolarmente rilevante per capire una volta per tutte di che cosa stiamo parlando: ad eccitare chi commette atti simili, non è la natura sessuale dei contenuti che condivide, ma la mancanza stessa del consenso. Questo appare piuttosto chiaro già a partire dai nomi che vengono dati a gruppi come quelli messi in luce dall’inchiesta di Wired. I riferimenti allo stupro si sprecano e non dobbiamo pensare che si tratti di una semplice casualità. Vogliamo davvero convincerci che l’unico motivo che muove verso atrocità simili sia l’eccitazione sessuale? Viviamo in una società in cui le immagini porno, quelle realizzate con il pieno consenso delle donne partecipanti, non mancano. Ad apparire su quei gruppi però, non sono solo immagini pornografiche, le stesse che si potrebbero trovare su un qualsiasi sito per adulti. In molti casi si tratta infatti di fotografie molto meno o per nulla esplicite. Quello che si cerca, non è l’eccitazione sessuale momentanea, ma un esercizio di potere, seppur virtuale, che duri nel tempo. Una volta che una fotografia è stata pubblicata su internet, lo sarà per sempre. Una volta che una ragazza ignara di quanto stia accadendo alle sue immagini viene contattata e minacciata da chi ha deciso di esporla in pubblica piazza o da chi se ne è fatto complice, il trauma non passerà mai del tutto.

Forse ora risulta più chiaro perchè accusare la vittima di aver inviato o pubblicato foto troppo spinte o troppo eccitanti non abbia senso. Non è di semplice eccitazione che si sta parlando e in ogni caso la colpa è sempre di chi rende pubblico materiale che dovrebbe rimanere privato, non di chi ha malriposto la propria fiducia, anche se fosse con eccessiva leggerezza. Certo, inviare proprie foto intime, seppur ad una persona di cui ci si fidi ciecamente, rimane un rischio da non sottovalutare. Si tratta di una libera scelta e in quanto tale va rispettata, purchè ci sia dietro il giusto grado di consapevolezza.

Abbiamo detto che gli uomini presenti in quei gruppi Telegram lo hanno fatto per scelta e che ad eccitarli è stato il controllo esercitato sulle proprie vittime, un senso di potere derivante dalla mancanza del consenso. Potremmo quindi dedurre che si tratti di singoli uomini marci fino al midollo, casi limite ed isolati con cui difficilmente potremmo avere a che fare nella vita di tutti i giorni? La risposta è: dipende. Difficile non pensare ad uno scenario di questo tipo leggendo, dall’inchiesta di Wired, i messaggi di quel “padre” che chiedeva consigli su come stuprare i propri figli di 9 e 10 anni senza che si mettessero a piangere. In questo caso, voglio augurarmi, si tratta effettivamente di un caso limite, uno di quei mostri con cui si spera di non dover mai avere nulla a che fare.

Ma che dire di tutti quegli altri presenti nel gruppo? Quelli che magari visualizzano senza mai rispondere o condividere nulla? Siamo così sicuri che non troveremmo nessuno dei nostri conoscenti tra loro se solo cercassimo più attentamente? Un articolo dal forte impatto pubblicato su Bossy.it e intitolato ‘Il mio ragazzo era in quel gruppo Telegram‘ affronta questo argomento.

Rimane però ancora una questione aperta. É ovviamente compito della giustizia assicurarsi che chi ha commeso illegalità su quei gruppi Telegram sconti una pena adeguata. Il circolo vizioso che porta alla proliferazione di gruppi simili è però noto da tempo: ogni volta che uno di essi viene scoperto e chiuso dalla stessa piattaforma di messagistica, viene creata una nuova chat in cui reindirizzare gli utenti fino alla chiusura sucessiva e così via. É accaduto più volte e sta accadendo anche in questi ultimi giorni, nonostante l’enorme attenzione mediatica che la vicenda sta riscontrando. Ma che cosa possiamo fare noi, singoli cittadini, per contrastare fenomeni come questi? Personalmente, non ho una risposta certa in mano.

Posso però provare ad avanzare qualche ipotesi su quello che dovremmo smettere di fare.

Smettiamo di fingerci scioccati ogni volta che storie come queste vengono alla luce, per poi scordarcene subito dopo e riservare la nostra indignazione solo per la prossima che verrà a galla. Smettiamo, quando si parla di questi argomenti, di provare sempre a minimizzare, ad incolpare le vittime, a cercare giustificazioni che fanno acqua da tutte le parti. Smettiamo di ascoltare passivamente, senza intervenire, la prossima volta che il nostro amico si vanterà con noi delle foto appena ricevute, magari chiedendoci se vogliamo vederle anche noi. Impariamo ad educarci e ad educare gli altri, pur nel nostro piccolo. Probabilmente non cambieremo proprio nulla da soli e certamente non nel breve termine. Ogni passo avanti però, anche il più piccolo, ci rende più forti e più vicini a quel mondo ideale che, se anche non realizzeremo mai, forse riusciremo a vedere un po’ meno distante.

di Gabriele Sani