‘Voglio vedere il sangue’: la violenza sul grande schermo

LEONARDO GANDINI HA PRESENTATO A LA FELTRINELLI IL SUO ULTIMO LIBRO, CON GUERRA E MANGHI

aaddw“E’ la messa in scena a propiziare la relazione fatale tra sguardo e violenza, formalizzandola in termini spettacolari”. Questo il concetto alla base di ‘Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo’, il nuovo libro di Leonardo Gandini, presentato mercoledì 18 febbraio alla libreria Feltrinelli di via Farini. Oltre all’autore, a introdurre il testo sono stati presenti il professor Michele Guerra, docente di storia e critica del cinema e il professor Sergio Manghi, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi, entrambi presso l’Università di Parma. Gandini, che attualmente insegna storia e critica del cinema ed estetica del cinema presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha già trattato precedentemente il tema della violenza nel cinema, occupandosi di registi come Quentin Tarantino e Brian De Palma, i cui film sono spesso caratterizzati dalla durezza delle immagini. Con questo libro, il professore analizza in maniera approfondita la violenza nel cinema americano contemporaneo, che ha un modo diverso di rapportarsi alla violenza rispetto al passato.

SGUARDO, FORMA E MORALE – “Un libro intenso, breve – introduce il professor Guerra – che ci regala un excursus molto interessante sul cinema contemporaneo”. Un testo che si sviluppa secondo tre criteri di interpretazione del fenomeno della violenza: il rapporto privilegiato che questa intrattiene con lo sguardo, il modo in cui avviene la sua messa in scena, e la questione della morale”. “La violenza è una calamita per l’occhio dello spettatore”, sostiene Gandini. “Anche nella vita di tutti i giorni, nulla colpisce l’attenzione quanto una scena violenta”. In un secondo momento, dopo l’impatto visivo, entra in gioco l’aspetto morale: “Ci sentiamo in colpa solo per il semplice fatto di guardare”, aggiunge l’autore. Inoltre, nel cinema classico, i personaggi avevano profili morali ben definiti, mentre oggi per lo spettatore è molto più difficile individuare il confine tra giusto e sbagliato. Ma è altrettanto difficile per lo spettatore riconoscere l’aspetto artistico della violenza, spesso confusa con la sua esaltazione, che può essere rappresentata in diversi modi, come aggiunge Gandini: “I cineasti che lavorano sulla violenza in termini stilisticamente sofisticati sono di solito accusati di fare apologia, attraverso film nei quali vengono messe a punto strategie della rappresentazione della violenza che però non vogliono essere realistiche. Nessuno accuserebbe mai Paolo Sorrentino di essere un andreottiano per aver usato soluzioni stilistiche raffinate per raccontare la storia di Andreotti ne Il divo”.

DIVERSI MODI DI RACCONTARE LA VIOLENZA – “La prima volta che il cinema finisce in tribunale è per ragioni di violenza, perché mette in scena qualcosa che viene ritenuto oltre la morale. Il cinema ha da sempre a che fare con la visibilità, la moralità e la trasmissibilità della violenza”, spiega Guerra. “Usiamo la violenza come valvola di sfogo – prosegue il professore –  e il cinema è l’arte che la rappresenta nel modo più immediato”. Adesso la domanda di violenza viene ‘articolata’ tramitdsvve altri strumenti tecnologici, come il web, che ci fa accedere a violenze come ad esempio i video delle decapitazioni diffusi dall’Isis. Allora il cinema deve ripensare il suo modo di raccontare la violenza? Secondo Gandini, “si tratta di trovare delle modalità di messa in scena tali da permettere allo spettatore di prendere le distanze, di non aderire eccessivamente alla violenza. Si può usare la forma come un diaframma, un grimaldello per indirizzare la violenza in varie direzioni”.

RIFERIMENTI ALLA TRADIZIONE STORICO-MITOLOGICA – Nonostante Voglio vedere il sangue punti i riflettori sul contemporaneo, i riferimenti alla rappresentazione della violenza ripresi dal cinema hanno radici lontane nel tempo, come ad esempio la propensione a sminuire gli effetti della violenza che un eroe infligge al suo antagonista: “La non visibilità della vittima è propria della mitologia. Ad esempio non si sa nulla su che fine abbia fatto Remo, il fratello di Romolo”, ricorda il professor Manghi. Lo stesso professore, nella sua analisi principalmente sociologica degli effetti della violenza riprodotta, ha ribadito l’importanza dello studio effettuato da Gandini: “L’esperienza dello sguardo cinematografico ci ‘ri-guarda’. Costituisce la possibilità di interrogare il nostro sguardo. Di non fermarsi all’indignazione, che da sola acceca, ma di passare alla riflessione sul rapporto tra il nostro sguardo e la violenza”.

 Di Paola Basanisi, Michele Panariello, Marco Rossi e Luigi Vitale