Parma Calcio. La città allo specchio

LA VICENDA DEL CLUB CROCIATO COME SPECCHIO AMICO CHE AIUTA A RIFLETTERE

Stadio Tardinidi Sergio Manghi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi |

Mentre scrivo, non è chiaro se il collasso del Parma Calcio troverà una pezza provvisoria o lo trascinerà a breve in fondo all’abisso. Ma comunque vada, la materia per riflettere non manca di certo. Per riflettere, in particolare, sul nesso tra questa vicenda ‘sportiva’ e il vuoto surreale in cui annaspa l’anima della città, precipitata bruscamente dal culto di una parmigianità sfavillante su scenari oltrenazionali, con tanto di squadra ‘ducale’ sul tetto d’Europa, al desolante senso d’impotenza di fronte ai tanti segni di declino: rischio di chiusura dell’aeroporto e della Scuola europea, legata all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa); declassamento di istituzioni culturali di grande prestigio quali il Teatro Regio, la storica Biblioteca Palatina e il polo museale della Pilotta, già sede di eventi importanti quali la mostra sul Parmigianino e quella sul Medioevo; perdita di aziende e banche, tra cui la storica Bancamonte; cantieri inconclusi, talora vistosamente inutili, triste eredità dell’Amministrazione centro-destro-civica…

Il collasso del Parma Calcio, con i risvolti persino tragicomici che l’accompagnano (parodie in sedicesimo dei Tohir e degli emiri che investono sul pallone altrove) è con ogni evidenza uno di questi segni sintomatici. E neppure recente, a ben vedere. Già nel 2007 le energie per salvare la società sull’orlo del precipizio vennero da fuori Ducato, e cioè dall’oggi troppo facilmente crocefisso Presidente, Tommaso Ghirardi, lombardo. Facile cercare capri espiatori nel momento della caduta. Meno facile, eppure ineludibile, cercare le ragioni della caduta nelle cecità collettive che prosperano nei momenti di (apparente? fondato?) successo. Vale per il calcio, oggi, in piccolo, come valeva a suo tempo, ben più in grande, per il paradigma del declino parmigiano: il crack Parmalat.

A quanti mi chiedevano, in giro per l’Italia, com’era stato possibile quel crack tanto clamoroso, rispondevo: la domanda giusta non è come sia stato possibile il crack, ma come sia stato possibile, prima, lo straordinario boom, della Parmalat. Un fenomeno impensabile in ogni altra città emiliana, e non solo emiliana, della dimensione di Parma. Dove invece, evidentemente, pensabile lo era. E lo era perché da lungo tempo, e trasversalmente a ogni ceto sociale, qui si ama coltivare più che altrove, nel bene come nel male, il piacere di immaginarsi come abitanti di una bella città di corte ‘europea’ – non troppo ‘emiliana’, a ben vedere – che mette al primo posto la mostra estetica di sé, il bel gesto, il bel marchio, il bel canto, il bello scrivere, il bel recitare, il bel mangiare… Una vocazione estetica che predispone anche, tipicamente, all’avventura politica, come mostrano le vicende elettorali cittadine fin dagli anni 80, con quel ‘pentapartito’ DC-PSI-PSDI-PRI-PLI, alquanto ‘disinvolto’ coi bilanci, nel quale era vice sindaco quell’Ubaldi che nel 98 diventerà ‘sorprendentemente’ sindaco e aprirà la via (tardivamente pentendosi) alle ‘disinvolture’ anche più ardite della giunta successiva, stroncate dalla Magistratura ma tanto amate da quella stessa parmigianità che per rifarsi si riversò, a seguire, qual piuma al vento, nell’arena del possibile coup de théatre che prometteva di andare sulle scene nazionali e internazionali per l’accorta regia di uno showman di successo.

La vicenda del Parma Calcio, per il crudo risveglio dalle vaporose fantasie di fasti anche solo decorosi che esso comporta, può essere uno specchio amico, che aiuta a riflettere sulla ragioni profonde del vuoto nel quale la città sta annaspando. Senza indugiare, beninteso, nella lamentazione di maniera contro le pretese di grandeur dell’ex Ducato di Maria Luigia, poiché la ‘vocazione estetica’ parmigiana rimane comunque un valore culturale decisivo, non solo per comprendere il passato ma anche per immaginare un possibile futuro. Serve di più guardare con realismo, con immaginazione sociologica, sia consentito dire, alle dinamiche sociali attraverso cui si va tessendo quotidianamente, come un ‘intero’, il corpo vivo della città, che i fenomeni di crisi rendono meglio visibile. Da un lato, la tendenza a fare di quel ‘corpo vivo’ un aggregato cangiante di monadi autoreferenziali, di ‘cittadini’ individualizzati, sempre più atomizzati da una cultura narciso-liberista che affida le interconnessioni a logiche digitali, più che relazionali, sociali e politiche. Dall’altro, la resistenza e la resilienza delle relazioni sociali, delle storie associative, collettive, comunitarie, che fanno ‘capitale sociale’, per dirla di nuovo in gergo sociologico, in questo caso credo abbastanza intuitivo.

Ed è così che andrebbe guardata la vicenda del Parma Calcio. Nella sua ruvida capacità di sfidare la povertà della nostra immaginazione sociologica. Di sfidare, in particolare la radicata abitudine a vedere il calcio come un mondo separato. A guardare allo stadio, e alle sue dilatazioni mediatiche, come si guarda un acquario (mi piace, non mi piace; lo adoro, lo detesto, ecc.), invece che come uno specchio. Mi spiego meglio.

Le squadre di calcio, a Parma, si contano nell’ordine delle centinaia, dai ‘pulcini’ in su. E ciascuno può fare una stima a occhio di quante persone siano messe insieme quotidianamente dal pallone: giocatori, allenatori, arbitri, dirigenti, organizzatori, associati, genitori, amici, giornalisti, commercianti, naturalmente tifosi… Il capitale sociale costituito da questa fitta rete di interconnessioni quotidiane, nerbo principale di un’ancor più vasta rete di associazioni sportive, ricreative e culturali, ha un’incidenza vitale in tutto ciò che accade nell’intera città e nel territorio circostante. E va da sé che la cosiddetta ‘compagine cittadina’ è la forza trainante di questo prezioso ‘capitale’, dei cui frutti, sempre ambivalenti ma in larga misura buoni frutti, si nutre la nostra convivenza civile quotidiana, senza che per lo più ne siamo consapevoli.

Rendercene consapevoli è attivare la nostra immaginazione sociologica. È fare cultura. È fare città. È andare oltre le facili prese di distanza dell’indignazione (atteggiamento che spesso tiene a distanza anche l’intelligenza delle cose), oltre l’orizzonte miope delle soluzioni-tampone, per concorrere alla necessaria reimmaginazione unitaria della città (come seppe fare, va detto, seppure in modo discutibile, Elvio Ubaldi). E anche per concorrere alla necessaria reimmaginazione, che si sia appassionati o no, della compagine calcistica cittadina, magari aiutandola a dimensionarsi in modo più onestamente realistico, rispetto alle potenzialità del territorio, e ancor più interconnesso con l’insieme del tessuto associativo cittadino: sportivo, ricreativo, educativo, culturale e civile.

1 Commento su Parma Calcio. La città allo specchio

  1. annamaria cavalli // 4 marzo 2015 a 18:31 // Rispondi

    Analisi lucida e assolutamente persuasiva. Complimenti, Sergio!

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