Così è (se vi pare)

SUL FILO DI UN RASOIO

Spesso accade che i nostri occhi siano rapiti da qualcosa che, secondo loro, sbrilluccica. Così come succede alle gazze ladre che anche di fronte al più piccolo scintillio non riescono proprio a resistere e devono impossessarsene, lo stesso capita a noi esseri umani: il nostro sguardo viene catturato magicamente da una maglietta, un paio di scarpe, uno smalto e non possiamo far finta di niente, dobbiamo diventarne i padroni. Subito.

Peccato che a volte l’oggetto luccicante sia una persona. Un essere che brilla di luce propria, che emana un’attrazione elettromagnetica talmente elevata che legarsi le mani o incollarsi i piedi al pavimento risulta perfettamente inutile. Come una ventosa ad una lastra di vetro o ad una cozza con uno scoglio veniamo trascinati inesorabilmente verso l’oggetto dei nostri desideri. Lo acchiappiamo, lo adoriamo, esultiamo per la conquista. E diamo il via ad una lunga carriera da regista che alla fine ci porterà alla vincita del Premio Oscar per miglior film mentale del secolo.

Perché? Perché non è tutto oro ciò che luccica. La gazza a volte rubacchia carte di caramelle pensando che siano banconote, forse. Ecco noi ci lanciamo su soggetti che ai nostri occhi appaiono simili a divinità dell’Olimpo, tipo Brad Pitt nei panni di Joe Black. Ma quale Brad Pitt e quale Joe Black (magari). Passata qualche settimana al massimo ci ritroviamo a rincorrere Dobby, l’elfo domestico di Harry Potter o peggio ancora Gollum, quello de “il mio tesssssssoro”. Mostriciattoli, insomma. Nascosti perfettamente ed impeccabilmente all’inizio sotto mentite spoglie ricoperte di strass e paillettes che, una volta crollate, hanno lasciato il posto a superfici rugose e squamose. Che schifo. Solo adesso mi rendo conto di quanto possa rimanerci male la gazza ladra nell’accorgersi di aver toppato.

Il problema è semplice: i nostri occhi sono catturati da ciò che appare e il nostro cervello decide di vedere quello che più gli piace. Anche quello che non esiste. Sono più le volte in cui ci invaghiamo dell’idea che abbiamo di una persona che della persona in sé. E continuiamo ad insistere nel voler confermare quello che ci ostiniamo a voler vedere.

Il risultato? Un pacco gigante. Ma senza fiocco e senza lacrime di gioia. Piuttosto accompagnato da tanti bestemmioni verso un’entità immaginaria e verso noi stessi che, scemi come siamo, abbiamo inseguito quella che credevamo fosse una bellissima lucciola e infine era il faro del camion della spazzatura.

Alla fine di Così è (se vi pare), di Luigi Pirandello, l’attrice dice: “Io sono colei che mi si crede”,senza rivelare la sua effettiva identità. Diciamo che gli altri hanno su di noi un po’ lo stesso effetto: sono coloro che noi crediamo.

Chiamiamola aspettativa, chiamiamola speranza, chiamiamola un po’ come capita. La verità è che ognuno di noi insegue l’ideale di persona che vorrebbe al suo fianco, così com’è giusto che sia ma, a volte, incappa nell’illusione di averlo trovato in qualcuno che in realtà non lo è affatto. E quando gli occhi smettono di vedere brillanti e diamanti, quest’ultimi lasciano il posto a tanta amarezza (e ai famosi bestemmioni).

E allora che si fa? Si ricomincia. Gli occhi iniziano di nuovo a cercare e il cervello ad individuare il Joe Black di turno. Ma attenzione: a sto giro il luccichio lasciamolo perdere. Non diamogli corda, che tanto sta famosa corda tira tira alla fine si spezza, sempre. E miriamo al ‘così è’ punto. Il ‘se vi pare’ molliamo alla gazza che, da brava ladra qual è, il cordoncino dorato dell’uovo di Pasqua al posto del Tiffany se lo merita tutto.

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