Paolo Grosso con Emergency: “Vogliamo l’autonomia sanitaria dei Paesi in guerra”

TRA AFRICA E MEDIO ORIENTE, IL RISPETTO DELLE CULTURE E' LA CHIAVE PER OPERARE SUL POSTO

11108955_10206175560058347_7230898144833099324_nCambogia, Sierra Leone, Darfur, Iraq e Afghanistan. È qui che Paolo Grosso, anestesista, ha lavorato con Emergency per “portare la sanità dove non c’è e curare i malati sul posto”.
Grosso è stato ospite dell’incontro ‘Medicina e Chirurgia in Paesi in guerra’, tenutosi martedì 21 aprile alle ore 17, nell’aula A del plesso biotecnologico integrato dell’Università di Medicina e Chirurgia di via Volturno, e organizzato dai rappresentanti di Sinistra Studentesca Universitaria.

I COSTI DELLA GUERRA OGGI – Le prime immagini sono quelle delle mine antiuomo, cluster bomb, pappagalli verdi e valmara 69, con cui i medici e i volontari di Emergency hanno a che fare tutti i giorni. Paolo Romagnoli, giovane volontario dell’associazione umanitaria e mediatore dell’incontro, dà alcune cifre significative sui costi della guerra, in termini di vite umane e strutture ospedaliere: “C’è stata un’escalation di vittime civili nel corso degli anni. Nella Prima guerra mondiale erano il 15%, nella Seconda il 58%, oggi siamo arrivati al 93%, di cui il 34% è un bambino. Ogni singolo cacciabombardiere, poi, coprirebbe la spesa di 17 ospedali, così come ogni singolo giorno di guerra costa come 30 ospedali”.

LA MISSIONE DI EMERGENCY: PORTARE LA SANITÀ SUL POSTO – Numeri che toccano da vicino chi lavora in prima linea per ‘cessare il fuoco’ e trovare un’alternativa concreta agli abitanti delle zone più a rischio. Così prende la parola Paolo Grosso, che va subito alla notizia dell’ultima ora, gli sbarchi dei migranti: “Queste persone che arrivano sui barconi scappano da guerre, scappano dalla non sanità. Tra chi ci governa, in Italia e in Europa, che vogliono bloccare queste migrazioni, non ho sentito nessuno proporsi per portare la sanità là sul posto e dare la possibilità ai medici locali di migliorarsi e diventare autonomi”.

Com’è successo in Kurdistan, dove “quando abbiamo capito che i medici erano diventati autonomi e avevano fatto loro lo spirito di Emergency, abbiamo dato l’ospedale al governo curdo. E’ ancora aperto e funziona”. Un obiettivo che, secondo il medico, dovrebbe essere al primo posto per tutti coloro che operano in questo settore: “Se così non fosse, sarebbe una ‘colonizzazione sanitaria’ “.

Non manca, poi, una critica verso chi preferisce ‘fare economia’ su medicinali e interventi chirurgici: “Questa politica industriale dei nostri Paesi non fa altro che sprecare risorse rispetto a dei risultati che si potrebbero avere con delle tecnologie a costi inferiori, ma poco ‘appetibili’ per l’industria”.

CURARE L’UOMO, NON LA MALATTIA-  “Il trauma della guerra è un trauma della mente -spiega Grosso-, è un trauma di comportamenti, è un trauma della tribù, se siamo in Africa, e della comunità, se siamo in Afghanistan. Queste cose il medico non può dimenticarle. Riuscire a capire che storia c’è dietro a una ferita, che storia ha la sua famiglia, che cosa ci sarà dopo è importante”.

Parla per esperienza, Grosso, che quindici anni fa, in Sierra Leone, ha assistito in prima persona a un intervento di medicina olistica, che si occupa di “trattare l’uomo e non la malattia”. “Un bambino arriva da noi in ospedale -racconta- in preda a una crisi tetanica, una malattia comune in questo Paese, e non posso né intubarlo né assisterlo dal punto di vista respiratorio, perché mancano i macchinari. Provo con i farmaci, ma non passa. Poi viene vicino a me un’infermiera del posto, e mi dice sommessamente ‘Ma dottore, secondo me è il diavolo!’. E da lì nasce tutta una storia di cultura nera africana, di riti di iniziazione, che se non la conosci ti frega. Allora -continua- l’ho lasciata fare, si è messa a parlare tutta la notte col bambino lì vicino, e il mattino dopo era guarito dal tetano, stava benissimo”.

Il rispetto delle culture diverse da quella occidentale, spiega il medico, è fondamentale per poter operare sul posto. “Nei nostri ospedali si trovano, nella stessa corsia, talebani e mujaheddin, che capiscono che vogliamo aiutarli, e si lasciano curare. Se riesci a capire la loro cultura e la rispetti, anche loro ti rispettano e si crea un importante rapporto di comunità e fratellanza”.

AGLI STUDENTI: “NON FATE I MEDICI TURISTI”- Un ultimo consiglio Grosso ci tiene a darlo ai giovani aspiranti medici, che spesso non hanno l’occasione né la possibilità di vivere la medicina a 360°. “Spesso si finisce l’Università con tante nozioni in testa -spiega Grosso-, una specializzazione, ma poca pratica sul campo. Chi lavora con Emergency, però, anche se si è specializzato in chirurgia o altri settori, non può dimenticarsi di tutto il resto. Questo è un modo deteriore di fare medicina e non serve a nessuno”.

 

di Francesca Matta

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