Quale libertà?

OLTRE IL 25 APRILE

Mi ero promessa di non farlo. Eppure, come spesso accade, non riesco a tacere. Non io, quantomeno la storia non riesce a tacere. La storia deve parlare sempre, nel rispetto di tutte le persone e di tutte le ideologie. Troppo spesso non è così, troppe volte la storia la si fa parlare solo da una parte, da quella che ci viene più comoda, da quella che preferiamo, da quella che porta i voti e il consenso del popolo. E’ l’errore più grande che possiamo fare e che – quotidianamente – facciamo noi italiani. In questa breve – forse no – riflessione trovate anche delle canzoni: non sono messe a caso e per capire meglio, vi consiglio di intervallare la lettura con l’ascolto della musica.

Da una parte si chiede che sia tolta la scritta “DUX” dall’obelisco romano e dall’altra si esalta il valore eroico e combattente dei partigiani. Mussolini non è forse parte della stessa storia di cui lo sono i partigiani? Che poi, è la storia della nostra nazione e della nostra bella Italia. Eppure troppo spesso si vuole cancellare una parte, per valorizzare un altra, quando ci si dovrebbe limitare a raccontare la verità. Certo anche la verità può essere soggettiva o parziale, ma allora non raccontiamone solo una, raccontiamone tante: diamo voce, spazio a tutti perché ognuno ha la propria storia da raccontare, che può essere diversa da quella che abbiamo imparato a scuola, che ci hanno raccontato i nonni, gli zii, ma non per questo non è vera. E’ solo con l’ascolto di tutti che possiamo davvero ricostruire la nostra storia, e con essa la nostra libertà. Il saper ascoltare è sintomo di grande intelligenza, è saper andare oltre: oltre alle proprie convinzioni, alle proprie ideologie, alle proprie tradizioni. E’ apertura di mente, che spesso non abbiamo il coraggio di avere, perché ci viene comodo, perché prendere altre testimonianze che vanno contro le nostre opinioni ci può mettere in crisi e può far tornare alla mente persone, valori, tempi, che a tutti i costi abbiamo voluto cancellare.

La storia dell’Italia è una storia di sangue, di sacrificio, di martirio. Ma è anche una storia di persone, di idee, di speranza, di amore. L’amore per la patria dei nostri soldati, nelle guerre d’indipendenza, nei due conflitti mondiali, nella tremenda campagna di Russia, in Libia e in Etiopia. L’amore per le donne, spesso lasciate a casa e mai riviste perché la guerra uccide. L’amore per quei figli lasciati piccoli e ritrovati grandi. Una storia troppo spesso cruenta e spietata, ma comunque storia e come tale da non dimenticare, affinché il sacrificio di tanti uomini e donne non sia stato vano. Ricordarne gli eventi ne rende onore e rispetto, perché quello che abbiamo oggi è soprattutto merito di chi ha combattuto prima di noi. Ricordarne solo una parte, non ricorda coloro che sono morti e hanno creduto in un altro ideale, che comunque consideravano giusto. E se, come diciamo, crediamo nella libertà di parola e di opinione dobbiamo permettere che una credenza diversa dalla nostra sia esistita e che qualcuno per quell’ideologia abbia dato tutto se stesso, fino alla morte. Molte cose non si sanno o non si vogliono sapere, perché ci va bene così: la Repubblica Sociale Italiana, che in tanti contestano e riempiono di insulti, ha visto tra i suoi sostenitori persone che nel dopoguerra sono stati grandi dello sport, del teatro, della letteratura. Giorgio Albertazzi, Gino Bartali, Dino Buzzati, Walter Chiari, Carlo Dapporto, Corrado Govoni, Cesare Pavese, Raimondo Vianello, sono solo alcuni dei nomi celebri che hanno aderito alla RSI; anche loro in difesa di un ideale, in nome di una libertà, di un’ideologia. Condivisibile o no, non la possiamo dimenticare e nemmeno condannare: oltre l’ideale hanno dimostrato di essere stati grandi uomini di spettacolo, di sport, ma anche meritevoli padri di famiglia, semplicemente persone. Chi siamo noi, oggi, per darne un giudizio? Se si parla di libertà, non si deve condannare chi non la pensa allo stesso, ma che comunque – in nome dell’onore italiano – ha combattuto.

Prima di tutto, oggi, nel settantesimo della liberazione il nostro ricordo deve andare dunque a tutti i corpi dell’esercito, che quella terribile guerra l’hanno combattuta sul fronte, sulle montagne, in Russia, in Libia e nei Balcani. Dobbiamo rendere onore all’Esercito, alla Marina, ai Bersaglieri, agli Alpini…prima di tutto, a loro. Poi anche agli altri, ma non dimentichiamo mai che chi ha disertato – spesso – il contributo alla causa italiana lo ha dato solo in parte. Il Capitano della Compagnia di cui narra la canzone, sono i tanti soldati morti per la bandiera, per la patria, per la libertà. Per anni hanno combattuto sotto il Regio Esercito, spesso non condividendone le ragioni, ma rispettando i propri doveri di cittadini italiani e di soldati: non sono, forse, morti per la libertà? Perché, allora, non gli rendiamo lo stesso onore, la stessa gloria o anche solo semplicemente lo stesso ricordo, che rendiamo ai partigiani?

La verità è nascosta nelle montagne e qualcuno, probabilmente, se l’è portata nella tomba. I montanari la sanno, ma spesso lasciano perdere i dibattiti sul 25 aprile, principalmente perché in questo periodo loro iniziano a lavorare e non hanno il tempo di fare altro. I vecchi, quando ancora ci sono, disertano le celebrazione e rimangono a casa ripensando ad un passato troppo triste per essere ricordato. Chi l’ha vissuto, racconta che molti partigiani (anche qui, come in ogni cosa, ci saranno stati gli uni e gli altri) si sono solo nascosti tra le montagne, scendendo in città solo quando tutto era finito, proclamandosi liberatori di chissà cosa. Chi c’era racconta che troppo spesso i tedeschi erano informati da partigiani che volevano salva la vita, su dove trovare il maiale buono, la farina, i cibo. Chi ricorda, non può che confermare che la guerra partigiana è stata spesso una guerra civile, contro i nemici del paese, contro il rivale in amore…troppe volte gli spari sono giunti alle spalle, troppe pallottole sono state trovate dove non dovevano essere. Certo, la guerra è anche questo, perché dove diventa lecito sparare diventa lecito tutto. Se ora, ancor prima di finire l’articolo volete chiudere la finestra internet e mandarmi a quel paese, accusandomi di esser fascista, siete liberi di farlo. Perché la libertà è anche questo, ma vi posso assicurare che quello che ho scritto nelle righe precedenti, non sono frutto della mia invenzione ne tantomeno idee inculcatami dalla Lega o da scritti di Almirante: quello che ho scritto è la mia verità, che ho recuperato dai racconti che mi sono stati fatti da bambina, da chi la guerra l’ha vissuta in montagna e non solo lì, dai miei quattro nonni e da uno zio di mia madre che nelle sere d’estate, nella grande taverna, raccontava a noi bambini le storie della guerra. Non mi vedrete mai esaltare i partigiani, perché nel mio bagaglio culturale, memoriale, affettivo, sui partigiani non ci sono storie positive, ma solo racconti che non ne fanno certo degli eroi. Il mio non esaltarli, non è però un disprezzarli, un offenderli, un insultarli: è il rispetto di un’ ideologia diversa dalla mia, di una verità che non condivido, ma che comunque accetto. E mi piacerebbe che dall’altra parte, avvenisse la stessa cosa.

Nel grande calderone dei 70 anni della liberazione, ci si deve stare tutti. Ci devono stare, prima di ogni altra cosa gli italiani, civili e militari, perché tutti hanno voluto la libertà da un invasore, che non era il fascismo, bensì il tedesco. E nell’insieme, ci stanno e ci devono stare anche i partigiani, perché sicuramente una parte di loro – oltre quella di cui ho parlato prima – avrà combattuto anche per la libertà. Ma che siano i soli, questo no, non lo posso accettare. La nostra storia, la storia della guerra, della liberazione, della conquistata libertà e della nuova repubblica, è la storia di tutti gli italiani, non solo dei partigiani. Non portiamo all’esaltazione la storia, perché troppo spesso ci sono anelli nascosti che quando verranno a galla – perché sono convinta che prima o poi accadrà – potrebbero svalutare all’improvviso e in modo brusco tutto ciò che fin ora si è creduto. Allora festeggiamo la nostra liberazione, ma che non sia un tripudio di bandiere rosse, ma di tricolori.

di Chiara Corradi

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