Un contagio istituzionale?

"NESSUNO PUO' VIVERE SENZA UNA CASA": RIFLESSIONI DOPO L'OCCUPAZIONE DELLA RESIDENZA SANTI'ILARIO

Editorialedi Alessandro Bosi, docente di Sociologia generale e Sociologia del giornalismo

E se ne derivasse un contagio istituzionale?

Ha fatto bene il rettore dell’Università di Parma a consentire che le stanze della residenza Sant’Ilario, adibite per ospitare studenti, siano abitate, per i prossimi sei mesi, da undici nuclei familiari che, non avendo una casa, le hanno occupate lo scorso 25 aprile, con l’aiuto delle associazioni ArtLab e Diritti in Casa, come ha documentato ParmAteneo nello scorso numero.

L’auspicio è che le altre istituzioni facciano altrettanto.

Nessun vecchio, nessun bambino, nessun malato, nessun disabile, nessuna donna incinta, nessuna persona può vivere senza una propria dimora. Che gli sia affidata per un periodo definito, che debba garantirne la manutenzione, che debba impegnarsi per qualche forma di risarcimento, tutto questo sta bene e si può studiare nel dettaglio.

Ma il principio ha il valore dell’urgenza. E l’urgenza ha una sola forma che è etica e imperativa: hic et nunc!

È necessario un contagio di buone intenzioni e la determinazione di realizzarle.

La disponibilità di una dimora che sia, per ogni persona, il proprio luogo di vita è una condizione necessaria perché una città possa dirsi civile.

In secondo luogo, è un dovere morale provvedere in questo senso. Lo è ancor di più dove gli spazi liberi esistono già e solo si tratta di assegnarli. A Parma questi spazi esistono.

Infine, togliere i diseredati dalla strada e ridurre l’accattonaggio è motivo di sicurezza, ordine pubblico e contrasto della microcriminalità.

Nessuna città può consentire che il numero dei senza tetto cresca così da perderne il governo.

Tantomeno può lasciare che siano le associazioni di volontariato a farsi carico del problema. Queste, per loro natura, sono esposte al rischio che furfanti e malintenzionati, infiltrandosi, possano creare un sistema d’affari nel loro personale interesse. Né va sottovalutato il rischio che l’ambizione di primeggiare si sostituisca all’emulazione provocando scetticismo nei volontari e alimentando, nei diseredati, il convincimento che tutta quanta la società da cui si sentono esclusi profitti della loro condizione.

La trama del degrado va spezzata. Il calcolo e la previsione, che si usino per altre prove. Qui, esse hanno il sapore di quella procedura che, avendo da anni messo sotto vetro una verità inoppugnabile, ancora la sta analizzando per evitare il rischio d’incorrere in qualche errore formale. E così viviamo l’orrore di una povertà che dilaga in città, di un accattonaggio che cresce a dismisura, di aiuti che, richiesti a ogni contrada, a ogni angolo, impongono la crudeltà di un no! senza alcuna concessione, senza inflessione, senza umanità.

Per difendersi.

Sono i nostri soldi, che difendiamo, non avendone per tutti quelli che chiedono la carità.

Ma è anche altro.

Ci difendiamo dal dubbio che la mano protesa sia ladra e grifagna, ci difendiamo dal timore di non essere equi, di favorire qualcuno a discapito di qualcun altro, in modo emotivo e irragionevole.

Ci difendiamo da loro che ci chiedono, non meno che da noi stessi, alla ricerca di una coerenza che una mano tesa, umile o scaltra che sia, mette sempre in discussione.

C’è sempre qualcosa di più da dire, da analizzare, da approfondire. Ma di fronte a uno che non ha un posto dove stare, non c’è che una cosa da fare: darglielo, un posto dove possa vivere ogni giorno. Per che farne? “Per stare in attesa di andare da qualche parte e sapendo dove far ritorno”.

Sono questi i due tempi della vita ai quali, in un lungo colloquio, un senza dimora mi ha detto di ambire. Sopra ogni altra cosa.

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