Quando il nemico del giornalismo di qualità era il telegrafo

COME CAMBIA LA PROFESSIONE

Editorialedi Paolo Ferrandi, giornalista e docente di Giornalismo e nuovi media|

A metà dell’Ottocento, quando i giornali come li conosciamo ora avevano solo una trentina di anni di vita ed erano il nuovo che avanza, a far paura era un ‘attrezzo infernale’ come il telegrafo. In una colonna del 19 luglio del 1859, scovata da Mario Tedeschini-Lalli, il New York Times – che non era ancora di proprietà diAdolph Ochs, l’editore che lo avrebbe fatto diventare il più autorevole giornale di New York e avrebbe inventato il motto “All the News That’s Fits to Print” che ancora oggi fa bella mostra di sé sulla testata – se la prende proprio con il telegrafo.

“Per quanto riguarda l’influenza del giornale sulla mente e la morale della gente, non ci può essere razionalmente alcun dubbio che il telegrafo abbia causato molti danni”, si legge nel trafiletto che continua in questo modo “quanto triviale ed insignificante è la colonna con le notizie telegrafiche? Ha nevicato qui, ha piovuto lì, un uomo è stato ucciso, un altro è stato impiccato…”. Insomma, l’essenza del ‘notiziabile’ come lo intendiamo in termini moderni – e come lo intendevano già allora i giornalisti – per l’anonimo estensore era una cosa ‘triviale e insignificante’, non adatta alla sofisticata mente di un gentiluomo, tutto preso da speculazioni, non importa se filosofiche o poetiche, ben più alte della banale cronaca di quello che succede nel mondo.

Ora fate un piccolo esperimento mentale: sostituite nel trafiletto ottocentesco la parola ‘telegrafo’ con ‘internet’ – se siete un tipo con lo sguardo ancora rivolto al secolo scorso – oppure ‘social network’ – se avete lo sguardo rivolto al presente – e avrete ottenuto un magnifico generatore di geremiadi contro lo stato attuale del giornalismo capace di non sfigurare con i concettosi editoriali di molti quotidiani oppure con un corso di deontologia organizzato con il patrocinio dell’Ordine.

Il fatto è che – come ci ricorda Marshall McLuhan, in una delle sue innumerevoli immagini – noi di solito “guardiamo il presente dallo specchietto retrovisore e avanziamo all’indietro verso il futuro”, un po’ come l’angelo di Walter Benjamin che vorrebbe ricomporre l’infranto, ma ha le ali impigliate, appunto, nel futuro. Così ogni mutamento – dal più piccolo a quello che causa una discontinuità vera e che è quindi è frutto di una “distruzione creativa” per usare un’altra immagine, questa volta di Joseph Schumpeter – viene visto come un’irrimediabile perdita di profondità culturale, un avanzare a gran passi verso l’apocalisse. Ma spesso si tratta semplicemente di fare in modo nuovo – e più efficiente e più preciso: in sintesi meglio – quello che in precedenza si faceva in modo diverso. Mettendo in crisi però professionalità consolidate e molte volte protette. A volte troppo protette.

Accade anche al giornalismo, soprattutto al giornalismo. Possiamo partire dall’ingenua pretesa di mettere un ‘bollino blu’ di qualità ai siti (la proposta fu avanzata, non ricordo più se dal sindacato o dall’Ordine, negli anni zero di questo secolo) in mano a quelli che una volta, caricando di disprezzo la voce, si chiamavano i blogger; opoure dai lamenti periodici sulla perdita di profondità del giornalismo su web, rispetto a quello di carta. Intendiamoci, il giornalismo italiano non brilla per profondità e accuratezza dei contenuti, ma quelli che sono difetti che ci portiamo dietro da decine di anni non si sono improvvisamente ingigantiti con l’avvento di Internet. Anzi, forse la qualità complessiva è migliorata e di sicuro non è peggiorata.

Il fatto è che il giornalismo sta cambiando tanto. Non è solo un problema di modelli di business: è vero che con l’avvento di internet – che si basa su un modello free, nel senso che i ricavi delle imprese editoriali dovrebbero arrivare con la pubblicità e non direttamente dai lettori – non ne stato ancora trovato uno soddisfacente, ma i mutamenti maggiori sono altri. In sintesi quello che sta scomparendo è l’oggetto che fino ad ora abbiamo chiamato quotidiano. Non ha più senso mettere in ordine le notizie una volta al giorno per affidarle a una serie di fogli di carta con una prima pagina, titoli, occhielli, catenacci e sommari a dare ordine a tutto. I siti internet non devono fermarsi per mandare in stampa le notizie, sono (almeno teoricamente) aggiornati 24 ore al giorno sette giorni alla settimana e l’homepage (che è la cosa più vicina alla prima pagina che si può trovare in rete) ormai è superata. Le notizie viaggiano attraverso, le newsletter, i feed RSS e le condivisioni dei social network. Non c’è più bisogno di passare da una homepage. E, se si arriva alla notizia attraverso un motore di ricerca, neppure la testata ormai è più importante.

Ora – è la notizia di questa settimana – Facebook ha convinto alcune testate – tra cui il solito New York Times da cui siamo partiti – a pubblicare i loro contenuti direttamente sul social network, con una grafica studiata per integrarsi perfettamente con l’esperienza d’uso della creatura della società di Menlo Park. Una rivoluzione perché in questo modo le aziende editoriali non hanno più un ritorno in termine di pagine viste (e introiti pubblicitari), ma diventano partner di Facebook che cede loro una parte dei ricavi derivati dall’advertising venduto su quelle pagine. Il guadagno per gli utenti è dato dal fatto che non c’è bisogno di cliccare link per arrivare al contenuto: una grossa comodità in tempi di schermi piccoli come quelli degli smartphone. Ma anche un modo per fare scomparire ancora più velocemente il concetto stesso di testata editoriale in un ambiente, quello di Facebook, che ormai è diventato pervasivo.

Ma è la fine del giornalismo? Probabilmente, come abbiamo visto, no. E’ solo un altro modo per dar conto di quelle notizie ‘triviali e insignificanti’ che da ormai due secoli costituiscono l’essenza del giornalismo e che continuano a trovare milioni di lettori.

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