Mettere in scena l’opera che Verdi mai compose: Verdi Re Lear

LA SFIDA DEL LENZ TEATRO PER IL FESTIVAL VERDI 2015

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner - Verdi Re Lear - © Francesco Pititto (17)Derrida sosteneva che “l’impossibile è l’usciere del possibile.” Questo cammino-processo, non privo di difficoltà, è la sfida che la Fondazione Lenz affronta in Verdi Re Lear. L’opera che non c’è per il Festival Verdi 2015. L’evento debutterà al Lenz Teatro di via Pasubio il prossimo 11 ottobre per la regia di Francesco Pititto. La ricerca drammaturgica-musicale sarà affidata al compositore inglese di musica elettronica Robin Rimbaud aka Scanner mentre i costumi e le installazioni saranno a cura di Maria Federica Maestri. Lo scopo della ricerca è di far rivivere ciò che non ha avuto possibilità di essere, come afferma la stessa Maestri: “L’intento principale è quello di creare qualcosa che non c’era prima. E ciò può avvenire solo attraverso una serie di stratificazioni successive. Tutto nasce però dal desiderio di Verdi di creare un’opera”. Partendo dal libretto (con le correzioni autografe di Verdi) mai musicato del Re Lear, terminato da Antonio Somma, la drammaturgia tenterà la realizzazione di questa volontà inappagata del grande compositore: ricalcare, sulle orme di Shakespeare, le potenti suggestioni sentimentali che caratterizzano e colorano il rapporto tra cecità paterna e cecità reale.

IL FANTASMA DI UN’OPERA – È l’impossibile che diventa realtà, il sogno che si fa materia nello spazio scenico attraverso un dialogo tra finito e non-finito, generato dall’utilizzo spregiudicato di una virtualità a metà che si esalta attraverso l’artificio dello scambio di punto di vista del pubblico.
“L’allestimento/installazione  – scrive Pititto nelle note alla drammaturgia – è realizzato in due sale teatrali distinte: il pubblico della prima sala, al termine della performance, si sposta in una seconda sala; viceversa il pubblico di questa raggiunge la prima e la performance, diversa nei due spazi scenici, viene replicata: un unico spazio nel quale la variante è lo spettatore. La fruizione integrale avviene quindi, non dopo un intermezzo, intervallo o un cambio scena, ma attraverso un cambiamento della postura del pubblico e del luogo. Un corridoio congiunge le due sale e, nell’attraversamento, un brano musicale di Scanner accompagna l’ingresso nel nuovo spazio.” Federica Maestri aggiunge: “Abbiamo diffuso il Re Lear sull’intero spazio del nostro teatro, tutto il Lenz viene abitato dall’opera. Tutto questo perché noi non vogliamo semplicemente mettere in scena, ma creare delle condizioni nuove di fruizione del lavoro”.
L’intento di Lenz è quello di rievocare la fantasmagorica presenza dell’opera che sempre il Maestro di Busseto avrebbe voluto musicare. Siamo così di fronte al “fantasma di un’opera” direbbe Lavagetto. Un fantasma che si materializza attraverso la potenza del suono della voce che sostituisce la partitura musicale: ciò che non si può vedere con gli occhi si può percepire attraverso l’ascolto. In effetti “non c’è un vero e proprio Re Lear da mettere in scena – sostiene la Maestri -, c’è qualcosa che nella mente di Verdi ossessivamente torna in tante opere: il problema della vecchiaia. Questo vecchio, pazzo che non molla nulla ma fa finta di mollare. Vecchiaia che è poi l’emblema del nostro tempo, di un’Europa che invecchia, di questo secolo che non finisce”. Quello che non c’è, ciò che è stato sottratto, è espresso attraverso il canto degli allievi del Conservatorio Arrigo Boito che assurge a sonorità evocativa.

La nuova drammaturgia prevede l’inserimento di altri brani del repertorio Verdi che contengono le latenze del Re Lear incompiuto: “Il Lear è una presenza virtuale in diverse opere di Giuseppe Verdi. Nel Rigoletto, nella Luisa Miller, ne Il trovatore, nel Nabucco, ne La forza del destino”, aggiunge il regista. E conclude: “Sono tanti gli elementi di quest’opera: è un po’ come una specie di giostra con i cavalli. Ogni cavallo porta un segno linguistico differente: la musica, il canto, la voce off. Quando la giostra comincia a girare non si riconoscono più i cavalli ma se ne vede soltanto uno per la velocità. Il rapporto che cerchiamo di creare tra spettatore e opera è proprio di questo tipo”.
Uno dei motivi che, sembra, stia alla base dell’impossibilità del Lear verdiano è quello della difficilissima trasposizione in termini di melodramma dell’intreccio shakespeariano. A questo punto, l’unica via di uscita sembra essere quella di concentrarsi sull’impossibilità del vedere e sull’esaltazione dell’ascoltare tutta la potenzialità della voce, del suono e della musica. “Come va il mondo puoi vederlo senza occhi! Guarda con le orecchie!” urla Lear a Gloucester.

 

 di Michele Panariello e Filippo De Fabrizio

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