Ragazzi, fate teatro (e non rompete)

EDITORIALE DI PAOLO BRIGANTI

Editoriale Brigantidi Paolo Briganti, docente di Letteratura italiana contemporanea |

Dare consigli ai giovani che pensano a un futuro in àmbito teatrale? Non potrei proprio, visto che sono fuori (per mia fortuna) da quello che qualcuno ritiene il ‘vero mondo teatrale’, cioè quello professionistico (affascinante, ma arduo, anzi durissimo), quello in cui uno eventualmente cerca, talora disperatamente, di entrare per viverne (spesso, ahimè, alla fame! – appunto per questo dicevo ‘per mia fortuna’). Meccanismi a me ignoti, sfiorati appena tangenzialmente, pur in tanti anni di pratica teatrale (dagli anni Sessanta dello scorso secolo, non so se mi spiego). Di diversa natura – la mia pratica intendo – rispetto al professionismo, che qualcuno giudica evidentemente come l’unico vero teatro (basti pensare che, dopo un quarto di secolo di attività, l’Argante Studio – l’organismo teatrale da me co-fondato nel 1987 – non è neppure citato in uno sputacchio di nota di un recente voluminoso regesto di cose teatrali nostrane. Che ci si può fare? Ci vuol pazienza. Molta pazienza).

Il teatro non è solo ‘industria teatrale’ e ‘muri di un teatro’, il lavoro teatrale non è solo quello che, pur auspicabilmente, ti dia da vivere. Il teatro insomma non è solo ‘borderò’. Il teatro può/deve essere anzitutto una passione e un tirocinio che vive già di sé stesso, e ti ripaga (anche senza pagarti) del tuo lavoro e della tua applicazione. In che modo? Con la pura soddisfazione d’una esecuzione, con la fusione di intenti entro un gruppo, con la consapevolezza di aver portato un testo (quale che sia) ad un pubblico (quale che sia). È la trasformazione della parola grafica in una parola sonora, parola che è senso e gesto (Pirandello la chiamava “azione parlata”). Possiamo anche dire, forse, ‘gesto verbale’.

Educare la voce, educare il gesto, educare la voce a funzionare come un gesto… E, intanto, scavare nelle profondità di un testo (parlo ovviamente di un’esecuzione che parta da un testo scritto: si sa che una performance teatrale può anche essere d’altra natura, d’altra nascita, senza un pre-testo scritto…); comprendere, del testo, le molteplici sfumature e potenzialità di significato; decidere quale intenzione dare alle parole nel pronunciarle, quale senso attivare delle infinite potenzialità di una pagina. Perché – prendiamo un esempio minimale, basico – quando uno si pone di fronte a un pubblico, anche da solo, e dà voce a un testo (a memoria o leggendolo esplicitamente: ora non importa), quando cioè lo realizza fonicamente, compie una funzione che è già, in sé, di tipo teatrale: dà forma sonora a dei segni grafici, per renderli percepibili e comprensibili ad altri, altri che son lì, davanti a te, presenti. Questo significa propriamente ‘dare vita a un testo’. Questo significa anche ‘interpretare un testo’. Non è mica un caso che il verbo ‘interpretare‘ sia usato tanto per l’attività critica quanto per quella teatrale. Il critico interpreta. L’attore interpreta. Il regista interpreta tramite il proprio lavoro di regia, coordinando il lavoro degli attori in base a una propria interpretazione (e intenzione) critica del testo.

Pensate – riprova elementare – agli anni della scuola; e, perché no?, a questi stessi vostri anni di università. Vi sovviene la noia di certe voci? Risentite certe tiritere ammorbanti? Le palpebre vi si chiudono inesorabilmente… E, pur riuscendo magari a stare ad occhi aperti, quel che cala è l’invisibile palpebra dell’attenzione e comprensione, che, appunto, si chiude. “Eyes wide shut”, verrebbe da dire… (ma non divaghiamo). Ma – ed è come se sentissi sùbito anche le proteste di qualcuno – non tutti i maestri-insegnanti-docenti erano/sono così, vero? C’è qualcuno che, a ripensarci, rammentate con piacere, con gioia, con gratitudine, perché invece le sue lezioni (le sue ‘ore’) erano e sono sempre un piacere di ascolto. Sapete cos’era quel che vi piaceva? (beh, lasciamo stare qui qualche sottaciuta infatuazione… che non ci serve). Era ed è la capacità ‘dinamica‘ di una voce: i timbri e i toni variabili, la qualità affabulativa delle intonazioni differenziate; insieme magari a qualche motto di spirito, a qualche gesto o ammicco che spezzi la monotonia di un ascolto; qualcosa – permettetemi un giuoco di parole – che rompa la… ‘rottura’, sempre in agguato.

Ecco, se anche dovessimo pensare solo all’utilità pratica d’una personale educazione teatrale per la vita di tutti i giorni, se cioè dovessimo puntare all’applicabilità di un attivo ‘tirocinio locutivo’ di ognuno di noi entro la quotidianità (ma, ovviamente, il teatro è molto, molto di più, ça va sans dire), credo che basterebbe quanto detto fin qui a giustificare una ‘prassi educativo-teatrale basica’, proprio come strumento di ‘sopravvivenza sociale’ o, quantomeno, di benessere, di ciascuno e di tutti, di chi dice e di chi ascolta, per una migliore qualità della vita dell’intera comunità di parlanti-ascoltanti. Insomma, ascoltatemi: fate teatro! (e non rompete).

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