Salvatore Borsellino: “Sconfiggete la mafia dentro di voi: l’indifferenza”

IL FRATELLO DEL MAGISTRATO UCCISO DALLA MAFIA DIALOGA CON GLI STUDENTI DI PARMA

Salvatore Borsellino a ParmaSolleva il suo tablet, dalla custodia di color rigorosamente rosso, Salvatore Borsellino, definendolo “agenda elettronica” per richiamare all’agenda rossa di suo fratello Paolo, scomparsa quel 19 luglio del 1992 in via D’Amelio a seguito dell’attentato mafioso che uccise il magistrato antimafia e gli agenti della sua scorta. Da 6 anni continua a rivendicarla, fisicamente e simbolicamente, in giro per le città di tutta Italia, cercando di sensibilizzare soprattutto i giovani sui temi della legalità e dell’impegno sociale. Per questo venerdì scorso è arrivato a Parma, in un’aula del Plesso universitario dell’ex-carcere di San Francesco, invitato dai rappresentanti della Sinistra studentesca universitaria per parlare della sua esperienza personale e civile agli studenti, non solo universitari ma anche delle scuole superiori, tra cui alcune classi dei Liceo scientifico Ulivi e del Liceo classico Romagnosi. In un dialogo i giovani e il giornalista Enrico Gotti, per l’occasione in veste di moderatore,  l’ex ingegnere siciliano ha raccontato la sua vita tra memoria e impegno.

MOVIMENTO ‘AGENDE ROSSE’ – La sua storia recente comincia nel 2009 quando, a partire da un’iniziativa personale, nasce il movimento ‘Agende rosse’ (http://www.19luglio1992.com). “Un movimento spontaneo – spiega Borsellino – nato dagli incontri che ho fatto in questi anni in giro per il Paese, nato per chiedere verità e giustizia. Il giorno dopo l’attentato mia madre ci fece giurare (a lui e a sua sorella Rita, ndr) che avremmo fatto tutto per portare avanti la battaglia di nostro fratello. Ho mantenuto la promessa fino al ’97. In quegli anni vedevo le cose in maniera completamente diversa: allora parlavo soprattutto di speranza perché avevo visto una reazione dalla cittadinanza. Ai funerali avevo visto la gente indignata: la folla di palermitani, che fino a quel momento avevano chinato sempre la testa, assalì i rappresentanti dello Stato presenti, dicendo che quelli erano i loro morti non quelli dello Stato che aveva permesso che venissero uccisi”. Dopo questi anni di ‘militanza’ Salvatore sprofondò in un profondo silenzio, durato più di 10 anni “perché non avevo più la speranza”. “Dieci anni in cui mi sono buttato nel lavoro – racconta – ‘sintetizzando la mia droga dentro’ per andare avanti e pensare il meno possibile. Poi andai a fare il cammino di Santiago e sulla strada incontrai tanti giovani a cui raccontai la storia di mio fratello e spesso mi capitava di vedere alcuni di loro scoppiare a piangere: non erano neanche italiani ma conoscevano la sua storia e capivano. Da lì cominciai di nuovo a parlare e capii anche cos’era l’agenda rossa: un’agenda dell’Arma dei Carabinieri su cui Paolo, dopo la morte di Giovanni Falcone (avvenuta 57 giorni prima della sua, il 23 maggio), iniziò ad annotare tutto ciò che era riuscito a scoprire sulla sua morte. Il 25 giugno chiese di essere chiamato a Caltanissetta per testimoniare e dire ciò che sapeva sulla strage di Capaci ma non venne mai convocato. Fu eliminato perché aveva scoperto della trattativa tra lo Stato e la mafia e a quella si sarebbe opposto con tutte le sue forze. C’era qualcuno in via D’Amelio che aveva l’incarico di prendere quell’agenda per nascondere i nomi e le prove in possesso di Paolo Borsellino”.

Salvatore Borsellino a ParmaIL PAESE DELL’IMPUNITA’ – A chi lo accusa di fare ‘di mestiere il fratello di Paolo Borsellino’ Salvatore risponde, nel tentativo di svincolarsi dalla scomoda definizione, che “essere fratello di una persona che ha sacrificato la propria vita per il suo Paese non vuol dire assolutamente nulla”. “Io sono suo fratello per motivi anagrafici, ma essere fratelli significa un’altra cosa: vuol dire condividere gli stessi sogni, le stesse battaglie, la stessa vita. Se c’era un fratello di Paolo Borsellino questi si chiamava Giovanni Falcone. Nonostante fossero di idee diverse, condivisero tutto, anche la morte”. E non osa definirsi nemmeno fratello di un eroe “perché qualcuno ha chiamato con questo appellativo Vittorio Mangano, lo ‘stalliere di Arcore’ e da quel giorno io mi rifiuto di chiamare mio fratello e i ragazzi della scorta morti insieme a lui in quel modo. Berlusconi – spiega – in un dialogo con Dell’Utri, uno dei pochi finiti in galera, disse che Mangano era un eroe perché, nonostante fosse già stato condannato a due ergastoli, si rifiutò di rivelare i nomi dei politici con cui era venuto a contatto: definirono eroismo l’omertà. Allora io lo chiamo in altro modo, forse solo Paolo è la definizione giusta”. Nascondere la rabbia risulta pressoché impossibile per una persona da sempre bersagliata perché non ha mai smesso di fare nomi e accusare i presunti responsabili delle stragi mafiose. “Io non piangerò mio fratello finché non ci sarà verità e giustizia sulla strage di via D’Amelio. In questo Paese un parente delle vittime di mafia ha due possibilità: o sta zitto e si limita a piangere una volta l’anno, quando vengono i giornali per cercare di strapparti ricordi il più possibile dolorosi per aumentare l’audience televisiva; oppure se ostinatamente, come faccio anche io, chiede verità e giustizia, si viene attaccati con cattiveria. Esponenti dello Stato mi hanno privato anche della definizione di familiare delle vittime di mafia perché ho accusato loro pubblicamente”.
A proposito della criminalità organizzata, Salvatore Borsellino spiega come ormai sia un fenomeno radicato nella nostra società e non solo: “La mafia è un tumore fatto crescere in maniera incontrollata. È vero, è nato da Sud ma lo hanno fatto arrivare ovunque aggredendo i vari apparati statali: ora è entrato in metastasi. Io sono fuggito a 27 anni per scappare dalla mafia che vedevo davanti ai miei occhi ogni giorno, per i morti ammazzati per strada. Oggi ha cambiato aspetto. Non è visibile ed è estremamente più subdola e non permette di ‘farsi gli anticorpi’. La si vede quando qualche Comune viene sciolto per infiltrazione mafiosa. Ma ormai si è globalizzata, ha costruito i proprio traffici all’estero trattando direttamente con i cartelli della droga colombiani. La trattativa che è costata la vita a Paolo si è conclusa e fuori dall’Italia non esistono nemmeno leggi che puniscano il reato di associazione criminale, mentre questo dovrebbe essere riconosciuto a livello europeo. Ci vuole una legislazione contro la criminalità organizzata”.

Parlando del processo ‘Aemilia’, ora in corso al tribunale di Bologna e che vede indagati diversi esponenti della politica emiliana per associazione mafiosa, Borsellino commenta che di questi processi se ne dovrebbero aprire in ogni regione. “In Liguria – fa l’esempio – infestata dalla ‘ndrangheta;  lì ci sono più Comuni chiusi per infiltrazione mafiosa che in Sicilia. E anche in Lombardia si cominciano a chiudere. L’infiltrazione mafiosa ormai c’è dappertutto. Il cancro si può combattere finchè non è entrato in metastasi: la mafia ormai è arrivata a questo punto e non si sconfiggerà finché questi magistrati come Di Matteo verranno lasciati soli. Finchè lo Stato non si muoverà e finchè non verrà anche dal basso allora la lotta è disperata”. A questo punto chiama in causa direttamente i tanti studenti in aula: “La mia vita è agli ultimi stadi ma siete voi giovani che dovete cambiare le cose”.

Salvatore Borsellino a ParmaUNA LETTERA DI SPERANZA -Il messaggio è chiaro ma per farlo comprendere  meglio al suo uditorio Borsellino racconta uno dei suoi tanti aneddoti: la lettera scritta da Paolo Borsellino agli studenti dell’Università di Padova il 19 luglio alle 5 del mattino, “per fregare il mondo con due ore d’anticipo”. “Scrisse nella sua ultima lettera che era ottimista – racconta -. Lui aveva speranza verso quei giovani del Nord, a scapito dell’indifferenza che lui stesso mantenne colpevolmente fino ai 40 anni. La mia mente si fermò sulla parola ‘indifferenza’ di cui si accusava. Proprio lui che stava rischiando la vita per il suo lavoro? Ho creduto quindi che si riferisse a me e che mi accusasse d’indifferenza e per questo motivo non lessi oltre. Dopo anni la ripresi e continuai a leggere. La frase dopo diceva: ‘quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e la mia generazione ne avemmo avuta’. Questa era la speranza di Paolo, siete voi – esorta -. Tutte le frasi che avete letto su di lui sono belle ma nessuna dice veramente chi era Paolo Borsellino. La frase che invece lo contraddistingue e che è presente nella prima pagina dell’agenda rossa (il libro sulla sua storia, ndr), dice ‘Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla: perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare’. Qui parla dell’amore che ripete tre volte in tre righe, eppure è un magistrato, un uomo di legge”. A questo punto la commozione è quasi irrefrenabile nel suo tono di voce ma Salvatore sottolinea che non vuole commuovere, ma far arrabbiare.”Io cominciai a parlare soprattutto per rabbia ma anche perché ho ritrovato la speranza che cerco ora anche nei vostri occhi guardandovi uno per uno. Io non ho niente da insegnarvi, vengo solo qui a dire quelli che sono stati i miei errori perché voi non li ripetiate.”
Borsellino saluta gli studenti con un’esortazione, quasi un avvertimento: “Diffidate di chi vi dice che il futuro è vostro: si, questo futuro di ‘merda’ che vi stanno lasciando. Pretendete da queste persone che vi dicano dove hanno sbagliato per capire dove si può migliorare. In quella lettera di Paolo c’era un messaggio di speranza che io non avevo capito”.

 

di Giuseppe Mugnano

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