La strage di Parigi e il marketing della paura

DI FRONTE ALL' "ISLAMIZZAZIONE DEL RADICALISMO" LA NOSTRA RISPOSTA DEVE ESSERE "A COLORI"

Attacchi Parigidi Paolo Ferrandi, giornalista e docente di Giornalismo e nuovi media |

Guillaume Le Dramp era nato a Cherbourg, una bellissima cittadina della Bassa Normandia, ma viveva a Parigi e aveva l’Italia e Parma nel cuore. A Parma, nella nostra università, aveva fatto l’Erasmus e a Parma era poi rimasto per alcuni anni, lavorando come barista in uno di quei sentieri di crescita e arricchimento non lineari che riescono così difficili da interpretare per i tecnocrati che vedono nell’educazione solo il veloce trampolino per lanciarsi in una carriera lavorativa ben remunerata. In attesa di riuscire a passare l’esame di abilitazione per fare l’insegnante, Guillaume – che a 33 anni ha trovato la morte per mano dei terroristi del sedicente Stato Islamico assieme ad altre 18 persone nel bar La Belle Équipe al numero 92 di rue de Charonne nell’undicesimo arrondissement nella notte maledetta del 13 novembre – lavorava in un bar del Marais. C’è una sua foto, che abbiamo pubblicato sulla Gazzetta di Parma, che lo ritrae con la bandiera arcobaleno del movimento pacifista, la bandiera che pochi anni fa, all’epoca dell’invasione dell’Iraq, si vedeva esposta in molte finestre della nostra città.

Chissà cosa avrebbe pensato Guillaume dei tricolori – a volte costruiti con materiali improbabili come i reggiseni blu bianchi e rossi – che tappezzano la Francia in questi giorni. Di certo gli sarebbe piaciuta la Marsigliese, mai cantata con così tanto orgoglio dai giovani francesi come in queste ore. Ma sicuramente avrebbe apprezzato – lui che gli amici hanno ricordato su Le Monde come un «juke-box umano, capace di cantare l’intero repertorio francese» – che alla cerimonia di Stato in ricordo delle 130 vittime, nel freddo cortile d’onore dell’Hôtel national des Invalides, sia stato intonato anche un brano un po’ meno feroce dell’Inno nazionale francese come “Quand on n’a que l’amour” di Jacques Brel, dove al rullio incessante dei tamburi di guerra viene contrapposta la melodia di una canzone. Le sorelle di Guillaume, racconta ancora Le Monde, sono andate a far visita alla moschea di Octeville (la periferia di Cherbourg che ormai conta più del nucleo storico) «perché non c’è vicinanza (tra terrorismo e Islam). Guillaume aveva amici di tutte le religioni, compresi gli islamici».
E veniamo ora agli artefici della carneficina che è stata ufficialmente rivendicata dal sedicente Stato Islamico. Sette sono stati uccisi e alcuni altri sono in fuga. Il sito di Le Monde ha costruito un’infografica che ricapitola i dati salienti di tutti i terroristi islamisti che hanno colpito la Francia negli ultimi anni. Quasi tutti sono cittadini francesi (o belgi), figli di genitori immigrati ben integrati. La maggior parte di loro non ha avuto problemi familiari o condizioni di emarginazione tali da rendere difficile un percorso di crescita personale – anche se in alcuni casi c’è anche questo. In maggioranza sono stati studenti mediocri e quasi tutti hanno avuto problemi con la giustizia, ma per reati comuni (di solito furti o piccolo spaccio di droga), non per l’ideologia islamica. Molti sono stati per questo in carcere. La radicalizzazione appare essere stata improvvisa e non particolarmente approfondita sul piano culturale, spesso, poi, la prigione è stata il catalizzatore di questa vera e propria conversione all’islamismo. E se il carcere è stato il catalizzatore, il viaggio – fatto anche qui dalla maggioranza degli islamisti francofoni – nei territori del jihad – Siria, ma anche Iraq e Yemen – è stato il detonatore, l’innesco dei piani di morte che hanno portato a termine.

Un quadro come si vede composito, ma che sembra confermare l’analisi di Olivier Roy, orientalista e docente dell’Istituto universitario europeo di Fiesole, forse il più profondo studioso del fenomeno dello sviluppo del radicalismo islamico in Europa. Intervistato da Stefano Montefiori sul Corriere della Sera, Roy nota che i «futuri terroristi a un certo punto lasciano l’Islam dei padri e vivono all’occidentale, si dedicano al rap, bevono alcol, fumano spinelli, e poi all’improvviso cambiano, si lasciano crescere la barba, diventano islamisti, integralisti. Sempre in contrapposizione ai padri. Sono tanti i fratelli terroristi, dai Kouachi ai Clain agli Abdeslam, entrati in azione a Parigi: la dimensione generazionale è evidente».

La spiegazione che il professor Roy dà di questa «conversione» è però diversa da quella abituale. La componente religiosa è minima, secondo lui. Quello che conta è il radicalismo della visione, la brutale semplificazione esistenziale che riduce i colori del mondo al bianco e nero e che aiuta a ricentrare una vita alla deriva perché percepita senza radici. Un nichilismo su base religiosa che paradossalmente riempie di senso un vuoto esistenziale. «La secolarizzazione – dice il professore -, la mancata trasmissione dell’Islam dei padri, favorisce l’islamismo. Islam dei padri che peraltro i convertiti non hanno mai conosciuto. Quindi, non si tratta di radicalizzazione dell’Islam. Ma di islamizzazione del radicalismo».

Chiudiamo con i burattinai, se così li possiamo chiamare. I vertici del sedicente Stato Islamico non sono pozzi di scienza o fini interpreti della dottrina islamica, ma piuttosto uomini d’azione che hanno riportato in vita – in un tipico processo di narrativizzazione della conquista militare e politica con il richiamo all’origine in forma di mito – il Califfato, ma con una rozzezza d’interpretazioni che lascia sbalorditi gli stessi cattivi maestri dell’islamismo radicale. Eppure sono capaci di sofisticate operazione mediatiche. Una modernissima forma di marketing della paura – Il marketing della paura è proprio il titolo di una tesi di laurea sull’apparato comunicativo dello Stato Islamico di cui sono stato relatore qualche mese fa – che vorrebbe ridurci a un recupero compulsivo delle radici identitarie. A ridurci ad essere il nero del loro bianco abbacinante.

Le stragi di Parigi mirano a questo e per questo colpiscono i luoghi del divertimento e dell’arte. Per questo colpiscono giovani adulti più meno della stessa età dei kamikaze. E per questo la nostra risposta deve essere a colori, come la bandiera arcobaleno della foto di Guillaume. Per essere più forti di loro non basta – anche se è necessaria – una risposta militare e un giro di vite sulla sicurezza. Per essere più forti di loro dobbiamo essere noi stessi, cioè dotati di identità culturali e religiose plurali. Dobbiamo essere capaci di tirar tardi la notte e di fare una tesi di dottorato sul teatro italiano del ‘500. Come Guillaume, appunto.

 

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*