Il diritto all’oblio nell’era di Google: battaglia tra privacy e informazione?

30MILA RICHIESTE IN ITALIA, IL COLOSSO DEL WEB ALLARGA LA RIMOZIONE DEGLI URL A TUTTA L'EUROPA

google defIn rete tutto fluisce ma lascia il segno. Qui è possibile che un nome anche a distanza di decenni, rimanga legato a notizie del passato e che questo riaffiori sotto gli occhi di figli adolescenti sempre al computer su internet. E’ per questo nell’era digitale l’esigenza di tutela del diritto all’oblio assume una rilevanza problematica particolarmente significativa. Basta pensare da maggio 2014 ad oggi, sono oltre 405mila le richieste di rimozione di link attinenti a informazioni e vicende personali diffuse sul web pervenute a Googleplex, il quartier generale di Google. I dati sono quelli riportati dalla stessa azienda nel Rapporto sulla Trasparenza pubblicato online. Per quanto riguarda l’Italia, le richieste di cancellazione sono 30.289, per un totale di oltre 98 mila url. Tra queste c’è il caso di una donna che ha chiesto di rimuovere un articolo di dieci anni prima, concernente l’omicidio di suo marito, in cui era citato il nome della donna stessa. Un altro esempio riguarda una persona che ha insistito per la rimozione di 20 link ad articoli recenti sul suo arresto per reati finanziari commessi in ambito professionale. Se nel primo caso la rimozione è stata effettuata, nel secondo invece le richieste non sono state accolte. Nonostante il 68% degli url segnalati non siano stati rimossi, si percepisce però come l’opportunità di fare ricorso sia stata sfruttata finora da un numero di utenti non indifferente. Alla luce della diffusione incontrollata di informazioni online e della condivisione interattiva di notizie, risulta sempre più facile lasciare una ‘traccia’ permanente dell’identità personale di ogni individuo, con inevitabili ripercussioni sull’effettiva protezione della privacy. Dato che il gestore di un motore di ricerca è responsabile del trattamento dei dati personali, ecco che anche il colosso del web si adegua allargando la possibilità si ‘scomparire’ da internet.

Da inizio marzo (come anticipato da Reuters) Google ha infatti esteso a tutti gli stati membri dell’Unione Europea il diritto all’oblio, ovvero la possibilità per i cittadini di richiedere l’eliminazione di risultati relativi al proprio nome dagli indici del motore di ricerca. Ciò significa che, una volta accolta la richiesta, le informazioni che il soggetto vuole che siano ‘dimenticate’ tra i risultati della ricerca rimarranno ovviamente nel sito in cui sono state originariamente caricate, ma gli url rimossi non saranno più visibili su tutti i domini europei e non solo su quello specifico del Paese di provenienza della richiesta, come invece avvenuto finoraLa posizione assunta da Google non introduce quindi un nuovo diritto ma si limita ad estendere la misura di tutela della privacy al di fuori dei confini nazionali.
Il tema del diritto all’oblio si è sviluppato a seguito della richiesta da parte di alcuni utenti di attuare la cosiddetta de-indicizzazione relativamente a quei contenuti per i quali si vuol far valere il diritto stesso. I casi più frequenti riguardano informazioni e notizie sul web che possono risultare sconvenienti o dannose per soggetti coinvolti in passato in vicende riportate nelle cronache.

LE SENTENZE – La prima sentenza sul riconoscimento del diritto all’oblio sul web risale a una causa legale del 2010. Quell’anno Mario Costeja González, cittadino spagnolo, presentò all’Agenzia spagnola di protezione dei dati (Aepd) un reclamo non solo contro La Vanguardia Ediciones SL, sito nel quale il suo nome veniva messo in relazione a fatti ormai privi di rilevanza, ma anche contro Google Spain e quindi Google Inc. Nel reclamo l’utente faceva notare che sul motore di ricerca di Google, tra l’elenco dei risultati figuravano link verso due pagine di un quotidiano datate gennaio e marzo 1998 nelle quali veniva annunciata una vendita all’asta di immobili a seguito di un pignoramento effettuato per la riscossione coattiva di crediti nei suoi confronti. Il sig. Costeja González chiedeva da un lato che fosse imposto a La Vanguardia di sopprimere o modificare le pagine suddette, dall’altro che fosse ordinato a Google Spain o a Google Inc. di eliminare o di occultare i suoi dati personali, in modo che cessassero di comparire tra i risultati di ricerca, visto appunto che la menzione del fatto, a distanza di anni, era ormai da considerarsi priva di qualsiasi rilevanza, anzi dannosa per la sua immagine. In quel caso l’Aepd, creando un precedente per la giurisprudenza, ha sì respinto il reclamo diretto contro La Vanguardia, ritenendo che l’editore avesse legittimamente pubblicato le informazioni in questione (quindi confermando il diritto alla cronaca e all’informazione), ma per contro ha accolto quello nei confronti di Google per i motivi rilevati dallo stesso richiedente. La vicenda è poi passata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, nel maggio 2014, ha stabilito che è nel diritto dei cittadini richiedere ai motori di ricerca online l’eliminazione degli url ‘compromettenti’, formalizzando il diritto all’oblio per vicende personali non più di pubblico interesse.

La posizione ufficiale di Google fu allora espressa proprio dal responsabile legale della società David Drummond, attraverso un editoriale sul ‘Guardian‘. “Non siamo d’accordo con la sentenza, è un po’ come dire che un libro può stare in una biblioteca, ma non può essere incluso nel suo catalogo. Ovviamente, però, rispettiamo l’autorità della Corte e facciamo del nostro meglio per attenerci alle sue decisioni. È un compito enorme, dal momento che da maggio abbiamo ricevuto più di 70.000 richieste che riguardano 250.000 pagine web.”

aula-tribunaleArrivando in Italia, più recente è invece la sentenza di Roma del dicembre 2015 che ha respinto il ricorso di un avvocato che chiedeva a Google di ‘de-indicizzare’ 14 url risultanti da una ricerca sul proprio nominativo. Si trattava di notizie relative a una vicenda giudiziaria risalente agli anni  2012/2013 nella quale era implicato insieme ad altri personaggi romani, riconducibili  alla cosiddetta “banda della Magliana”. Il professionista lamentava che le informazioni riferite dai risultati del motore di ricerca si riferissero a “una vicenda giudiziaria nella quale era rimasto coinvolto senza che mai fosse  stata pronunciata alcuna condanna”. Il Tribunale  di Roma, pur facendo riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue del 13 maggio 2014, ha però respinto la domanda dell’avvocato romano. Questo perché, nonostante il reclamo fosse riconducibile al trattamento dei dati personali e al diritto all’oblio, nel caso specifico i dati trattati risultano da un lato recenti, dall’altro di interesse pubblico e quindi manchevoli proprio delle caratteristiche richieste per far valere il diritto stesso.

IL PUNTO DI VISTA GIURISPRUDENZIALE – Il nodo che si ripropone è lo stesso bilanciamento tra informazione e privacy con la differenza che, al contrario della carta stampata, il web conserva quasi tutto. “La questione sollevata prima in Spagna e confermata dall’Unione Europea e poi a Roma, è accomunata dalla contrapposizione di due diritti di pari rilevanza: il diritto alla riservatezza e all’identità ‘contro’ il diritto di cronaca e informazione”, evidenzia in proposito Maria Zanichelli, docente di Informatica giuridica all’Università di Parma. “Un soggetto ha diritto a fare in modo che il suo nome non venga ricondotto a informazioni che possano lederne in qualche modo l’onore ma, affinché questo diritto all’oblio possa essere fatto valere, è necessario che si possano constatare due elementi fondamentali: il tempo e la rilevanza delle informazioni. Il lasso di tempo che intercorre tra le notizie riportate e il momento della richiesta di eliminazione dei link deve essere esteso e quindi non più rilevante per esigenze di cronaca. Inoltre, se la persona in questione è un personaggio pubblico, non si può venir meno alle esigenze che i cittadini hanno di conoscerne la storia”. Nel caso dell’avvocato romano mancava non solo il requisito del tempo ma anche quello della rilevanza pubblica del soggetto, in questo caso evidente vista l’attività professionale del legale. “Bisogna però stare attenti – sottolinea la docente – a non usare il diritto riconosciuto dalla Corte dell’Unione per tutelare il nostro nome o modificare la veridicità delle notizie al fine di nascondere la realtà dei fatti. L’avvento della tecnologia ha sicuramente portato ad una sovraesposizione dei propri dati personali, tant’è che si parla sempre più spesso di identità digitale. Il problema del web è che non sempre riesce a far percepire l’estensione temporale degli avvenimenti e quindi, la mancanza di uno spessore diacronico fa sembrare tutto attuale e ancora valevole.”

 

di Fiorella Di Cillo

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