Prova a prendermi: il sistema delle società off-shore

NESSUN CONTROLLO NE' INFORMAZIONI: COSA SONO E COME FUNZIONANO LE SOCIETA' NEI PARADISI FISCALI

mossack-fonseca-scandal-panamaAl largo della costa. Tradotto letteralmente dall’inglese, ‘offshore’ significa questo. Qualcosa di irraggiungibile, distante. Come il protagonista del famoso film interpretato da Leonardo Di Caprio. Non a caso, il nome con cui sono meglio note alcune giurisprudenze è ‘paradiso fiscale’. All’interno di questi operano le società offshore, componenti fondamentali di un sistema su scala globale. Un’esotica illusione al largo di coste oceaniche, come Panama o Seychelles, per ridurre praticamente a zero le tasse rispetto alla grigia cappa del fisco di residenza. Un fenomeno sempre più vasto e radicato, come ha recentemente dimostrato l’inchiesta ‘Panama Papers‘. Il meccanismo di elusione stimato raggiunge i 7.600 miliardi di dollari, l’8% della ricchezza mondiale. Nonostante ciò, esistono alcune possibili soluzioni per squarciare il velo dell’inganno. Ma ciò richiede uno sforzo a livello di politica fiscale internazionale che al momento rimane sulla carta.

COSA SONO E COME FUNZIONANO – Tecnicamente, per offshore si intende “una società costituita e registrata in base alle leggi di uno stato estero”, spiega Germano Rossi, commercialista dello studio Rossi di Parma. “In esso è presente un ordinamento che offre condizioni fiscali favorevoli che prevede scarsi controlli e mancanza di scambio di informazioni contributive con altri stati sui beni posseduti, conducendo la propria attività al di fuori dello stato o della giurisdizione presso il quale è stata registrata” . In altre parole è un’azienda costituita tramite studi bancari o fiduciarie, in un Paese nel quale si pagano meno tasse sul patrimonio immobiliare e patrimoniale e l’anonimato dei movimenti bancari è garantito. Infatti lo scopo principale per cui si costituiscono è di non essere raggiunte dal fisco nel caso di capitali di dubbia provenienza o che si desiderano occultare. Spostare investimenti in vari Paesi per ridurre la tassazione. “La maggior parte delle risorse provengono da evasione fiscale o riciclaggio, per cui, costituendo una società in Paese offshore, lo Stato non può avere più informazioni”, chiarisce Rossi.

UN’ELUSIONE FISCALE A LIVELLO GLOBALE – Ma com’è concretamente possibile trasferire dei capitali senza che l’Agenzia delle Entrate lo venga a sapere? “Immaginiamo di avere una società che opera in tutto il mondo – esemplifica il commercialista -. Vendi un macchinario da un milione di euro in America e, anziché fatturarlo un milione, lo fatturi 950.000. I restanti 50mila vengono contabilizzati negli Usa, poi quelli li trasferisci a Panama creando il conto corrente della società offshore. A quel punto su quei 50mila non hai pagato le tasse, che detieni in quel Paese tramite quella società”. In tutto ciò però l’elemento sorprendente è che di per sè una società offshore è lecita. “Avere proprietà, beni o capitali all’estero è legale se la provenienza del capitale è conosciuta all’autorità fiscale italiana – spiega Alberto Comelli, docente di Diritto tributario dell’Università di Parma -. L’offshore in sé non è illecito, ma viene spesso utilizzato per obiettivi che con la legalità hanno poco a che vedere. Infatti sono concentrate in Paesi con caratteristiche tali per cui sono paradisi fiscali”.

 

DOVE SONO I CONTROLLI? – panamaPoca trasparenza e assenza di notifiche sui movimenti del patrimonio depositato nel Paese sono alcuni dei parametri che caratterizzano una società off-shore, individuati dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) all’interno di una battaglia iniziata già dal 1996 che ha cercato di stilare una ‘black list’ per identificare i paradisi fiscali sparsi nel mondo. Ciò non basta perchè sorgono due problemi non di poco conto: la gestione dei rapporti internazionali ed il segreto bancario. “Senza una rogatoria internazionale o un accordo tra le parti, lo Stato estero non è tenuto a dare dettagli sul patrimonio di un utente“, precisa Rossi. Inoltre, sottolinea Comelli, in quanto fiduciarie “tutto ciò è accompagnato dal segreto bancario”. Senza dimenticare infine che la maggior parte delle azioni delle società offshore sono intestate con la sigla ‘the bearer’, ovvero che il patrimonio è ‘al portatore’ e non si può dunque risalire all’identità reale del titolare.

 

E IL FISCO? – Ma come intervenire concretamente per arginare questo fenomeno? Tocca all’Agenzia delle Entrate ricercare e tassare tali società. La strategia che viene adottata attualmente è quella ‘voluntary disclosure, ossia persuadere gli evasori ad autodenunciare la propria attività offshore; ‘collaborare volontariamente’ nel regolarizzare la propria situazione. Infatti, come ha dichiarato a L’Espresso la direttrice dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlando, “la situazione cambierà radicalmente nel 2017, quando in tutta Europa entrerà in vigore lo scambio automatico dei dati fiscali”. E grazie alla normativa internazionale sull’autofinanziamento, chi cercherà di utilizzare o trasferire il proprio capitale “avrà il rischio di non poterlo più reinvestire; se sposti i soldi ti prendono”. In definitiva, l’uniformità dei controlli fiscali a livello internazionale è una possibile soluzione per arginare il fenomeno. Come infatti sottolinea Comelli, “trasparenza significa contrastare ed isolare le giurisdizioni che ostacolano lo scambio di informazioni tra autorità fiscali, non dare la possibilità ai capitali di raggiungerle”.

imagePANAMA PAPERS – La carta, appunto. Non quella delle banconote, ma quella stampata. Come quella degli 11 milioni e mezzo di documenti, secondo L’Espresso, archiviati dallo studio ‘Mossack e Fonseca’ (MF), una delle più grandi fiduciarie di offshore del mondo, situata a Panama. L’indagine infatti è scaturita da un quotidiano tedesco che, tramite fonte anonima, ha ricevuto un’enorme quantità di dati provenienti da tale studio. Un lavoro che ha richiesto l’impegno di quasi 300 giornalisti internazionali coordinati dal ‘ International Consortium of Investigative Journalists’ (ICIJ). L’aspetto decisivo di questa vicenda, tutt’ora in corso, è la conduzione di un’inchiesta di data journalism su scala mondiale svolta tramite la cooperazione di diverse testate nazionali (L’Espresso per l’Italia) per cominciare a scoprire l’ennesimo vaso di Pandora. Tra le 210 mila società offshore presenti, almeno 800 sono i connazionali citati. Personaggi della politica, della moda, della mafia. Purtroppo è presente anche Parma nella lista: vi è Giovanni Fagioli, console della Bulgaria in città, ed Emanuela Barilla, imprenditrice nel cda della multinazionale di famiglia parmigiana che nel 2014 avrebbe costituito una offshore nelle Isole Vergini Britanniche.

 

di Jacopo Orlo

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