Islam “East & West”: dialettica tra culture, sapere universitario e creazione del senso

PONTI TRA EUROPA E CULTURA ISLAMICA COME RISPOSTA AI FONDAMENTALISMI E AL TERRORISMO

Islamdi Giancarlo Anello, professore di Antropologia e Istituzioni dell’Islam dell’Università degli Studi di Parma |

Nel 1949 in Egitto, usciva alle stampe la prima edizione di un volume dal titolo emblematico: Al-dimuqratia fi al-islam (La democrazia nell’Islam). L’autore era l’egiziano Abbas Mahmud al-Aqqad (1889-1964), editorialista, studioso, scrittore (scrisse più di cento libri), uomo politico noto per il suo impegno civile. Tra il 1930 e il 1931, quando era membro del Parlamento egiziano, fu imprigionato per alcuni mesi per aver rilasciato un’intervista in cui difendeva a spada tratta la democrazia parlamentare e la sua applicazione in Egitto. Vera e propria “icona” della cultura araba, a partire dagli anni ’50 istituì nel proprio salotto di casa una serie di incontri settimanali, da tenersi al venerdì, in cui i migliori tra gli intellettuali egiziani dell’epoca discutevano di letteratura, filosofia, scienza, storia e altre tematiche. Uno dei temi favoriti di questi dibattiti era il ruolo delle donne nella società musulmana. Aqqad scrisse tre libri sull’argomento criticando la visione religiosa e ortodossa e insistendo sul fatto che le donne avrebbero dovuto partecipare attivamente alla vita pubblica del Paese.
Anche il suo volume (che non fu mai tradotto in una lingua diversa dall’Arabo, ma se ne segnala un progetto di traduzione in lingua italiana da parte del Prof. Khaled Qatam e della sua classe di studenti di Arabo di quest’Ateneo) si caratterizzava per il tenore progressista e riformista e per una interpretazione endogena delle potenzialità pluralistiche insite nella religione islamica. L’autore si proponeva di armonizzare il concetto di “democrazia” con la cornice ideologica della religione e cultura musulmana, nelle sue implicazioni organizzative sul piano giuridico-sociale. Il testo si snodava cercando di modulare tale nozione per punti, analizzandone il concetto originario, i possibili adattamenti nella cornice della mentalità araba e dello stato egiziano postcoloniale. In particolare, il volume trattava, con sconvolgente antiveggenza, una serie di problematiche che hanno attanagliato e attanagliano l’Egitto post-rivoluzioni arabe, come la giustizia sociale, il welfare statale, la sovranità territoriale, il rapporto con le potenze straniere e con gli immigrati dai paesi limitrofi, i vincoli e le prospettive del tradizionalismo religioso, fornendo per tutti questi quadri indicazioni teoriche e prospettive pratiche di azione pienamente attuali.

Questo breve preambolo vuole mettere in evidenza i motivi di interesse verso lo studio di un profilo della cultura musulmana spesso negletto, che si è invece espresso molte volte nella storia nella capacità di elaborare, a partire dal suo interno, ponti di traduzione tra concetti e idee provenienti da saperi stranieri. Questo tipo di potenziale rappresenta, agli occhi di chi scrive, il più formidabile strumento di risposta ai fondamentalismi e al terrorismo contemporaneo e globale. E un simile potenziale, che ha le sue radici in Oriente, può e deve essere oggi sviluppato in Occidente. Ciò per una serie di ragioni.

La prima è del tutto pragmatica e materiale: a dispetto della percezione che probabilmente si ha della questione nell’opinione pubblica in Europa, l’Islam non è più solo un affare di politica estera. Difatti, mentre l’attenzione mediatica nei confronti dell’Islam si accende a intermittenza, per lo più in corrispondenza di attentati o fatti militari da più di cinquant’anni, i cambiamenti geopolitici del Mediterraneo, le migrazioni massive economiche, le traversate e le marce disperate di profughi e rifugiati, hanno già trasformato, e definitivamente, la geografia sociale europea. E la religione e la cultura islamiche si sono insediate da tempo, con tutte le loro ambivalenze semiotiche, nella società europea. Paesi come la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, la Germania, la Svezia e ora anche l’Italia vedono la presenza sul proprio territorio di terze o quarte generazioni di musulmani. Né deve trarre in inganno il fatto che molta parte di queste comunità viva ai margini delle grandi città, nelle periferie o in quartieri ghetto, che la maggior parte dei luoghi di culto sorga al di fuori dei centri urbani, che i più non partecipino alla vita politica o alle attività sociali di quartiere, che la maggior parte dei dialetti arabi renda impossibile ogni forma di comunicazione quotidiana. L’Islam europeo esiste, poco osservato, di là da queste barriere, e l’Europa si è già in certo quel modo “islamizzata”.

La seconda ragione è invece propriamente speculativa e antropologica. Se è vero che nei luoghi di origine, lo sviluppo di stati indipendenti e postcoloniali ha dato luogo al ritorno al tradizionalismo religioso (Arabia Saudita, Pakistan, Iran), o per usare un’efficace espressione di Mohammed Charfi, a forme di “modernità esitante”, non è ancora definito l’esito dell’interazione quotidiana tra “abiti” culturali islamici e contesto statale europeo. Agli occhi di chi scrive, peraltro, nella valutazione delle potenzialità culturali musulmane “nel contesto” è proprio quest’ultimo che deve o dovrebbe essere considerato il dato nuovo e costituire oggetto specifico di analisi. E in tal senso, il contesto statale europeo, tradizionalmente tendente alla laicità istituzionale non può rimanere senza effetto nel suo rapporto con l’Islam. Come si accennava, fino ad ora l’interazione istituzionale tra musulmani e stati europei si è per lo più svolta al di fuori o ai margini di ogni ipotesi di progettazione politico-sociale, e ha certamente dato luogo a ghettizzazioni, emarginazioni, discriminazioni palesi o latenti, ma non solo a questo. Quando si è dato spazio alla “cultura musulmana”, nelle accademie, negli spazi pubblici, o nei luoghi laici deputati al sapere e all’arte, sono sorte anche reinterpretazioni e formulazioni nuove, creazioni artistiche, esperimenti riusciti di integrazione e di promozione sociale. Per fare alcuni esempi, studiosi come Mohammed Arkoun, Tariq Ramadan, Mohammed Haddad, Stefano Allievi hanno scandagliato e ipotizzato molteplici variazioni di senso nell’interpretazione delle fonti religiose e del diritto islamico adeguandole al contesto politico e giuridico europeo. Il loro sforzo si è tradotto non solo nell’elaborazione di teorie e idee astratte, ma anche nell’istituzione di ambiti di studio e di sviluppo di tali percorsi per studenti, ricercatori e attivisti politici. Nel campo della creazione architettonica e artistica, oggi Londra rappresenta la capitale dell’industria creativa multiculturale e lì sono state erette di recente complessi-moschee tra i più innovativi e polifunzionali (Hackney Mosque, Baitul Futuh Mosque). Nel campo dell’emancipazione sociale, la studiosa italiana Sara Sivestri, in diversi suoi reports, ha messo in evidenza la crescente importanza della professionalizzazione, delle attività di mediazione interculturale, del ruolo pubblico assunto dalle donne musulmane di paesi come Francia, Belgio, Gran Bretagna.

La terza ragione è, infine, di tipo politico e d’ispirazione cosmopolita: un’interazione tra cultura europea e islamica oltre a poter essere bidirezionale (lo dimostra l’aneddoto iniziale sul libro di Aqqad) e feconda (lo dimostrano la storia medievale, la dialettica tra le scienze e le filosofie, l’esperienza di al-Andalus e della civiltà Arabo-normanna) rappresenta una speranza per l’avvenire: un circolo “virtuoso” in Europa, tra potenziale pluralista islamico e spirito democratico europeo, basato su attività e luoghi istituzionali (primo fra tutti, l’università) può rappresentare una manifestazione concreta e reale della volontà di integrare le comunità musulmane e può generare una serie di positivi “effetti di ritorno” negli stessi paesi di origine, oggi squassati da violenti conflitti civili e religiosi. Sotto questo aspetto, una formazione ed una educazione di migranti e rifugiati e dei loro figli di tipo dialettico, interculturale e non assimilazionista potrebbe creare una generazione di musulmani europei in grado di interpretare la propria religione, le proprie tradizioni, i propri valori alla luce di un contesto improntato all’universalismo, valore – questo – altissimo di un’Europa senza memoria, e che essa sembra ora voler tenere soltanto per sé.

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