Sei attivisti di Art Lab a Idomeni, faccia a faccia col confine d’Europa

GIOVANI DA PARMA IN VIAGGIO NEL CAMPO PROFUGHI GRECO, TRA VOLONTARIATO, INFORMAZIONE E UMANITÀ

unnamedIdomeni fino a pochi anni fa non era che un minuscolo villaggio di qualche decina di abitanti, frazione del comune greco di Paionia. Unica caratteristica particolare, essere l’ultima stazione ferroviaria prima del confine con la Macedonia, a ridosso della frontiera. Oggi Idomeni è diventato il simbolo della grave crisi della gestione europea dei flussi migratori. Dopo che la Macedonia ha deciso di bloccare il transito attraverso il Paese, pattugliando in forze il confine con la Grecia, circa 12mila persone si trovano bloccate in un vero e proprio limbo, in condizioni di fortuna. Quasi tutti provengono da Siria, Iraq e Afghanistan, un 15% invece da paesi non in condizioni di guerra.

LA MISSIONE UMANITARIA DI ART LAB – Durante gli scorsi giorni li hanno raggiunti 6 giovani partiti da Parma. Si tratta di alcuni dei ragazzi di Art Lab, l’atelier precario occupato di borgo Tanzi, che insieme ad altri italiani si sono recati nel campo per portare aiuti umanitari e documentare la situazione sotto le insegne dell’associazione ‘Over the fortress’. Una realtà che comprende associazioni e centri sociali di tutta Italia e si occupa di coordinare e gestire le partenze dei volontari. “Tutto inizia da un sentimento di solidarietà – ci hanno spiegato Noemi, Giammarco, Thomas e Riccardo – che nutriamo nei confronti delle persone che si trovano a vivere una situazione di questo genere, anche perché in qualche modo ci sentiamo coinvolti in prima persona da una dinamica folle che ci riguarda da vicino in quanto europei. C’è da parte nostra un senso di impotenza nei confronti dei governi, dei potenti e dei conseguenti interessi economico-politici che oggi minano i valori di fondo che secondo noi dovrebbero essere fondamentali per l’Europa”. Un approccio dunque militante da più punti di vista come spiega Noemi. “In primo luogo abbiamo voluto essere presenti sul posto per dare il nostro supporto morale e fattivo alle persone, ma soprattutto vogliamo dar voce alle loro storie, in particolar modo alla loro condizione così brutale. Fare in modo che anche il territorio di Parma sappia cosa si sta vivendo ad Idomeni come in altri campi di migranti sparsi nei confini di tutta Europa; che la gente conosca e si mobiliti, perché le persone capiscano la gravità della questione.”

Idomeni profughi 2

MIGRANTI E VOLONTARI, GOMITO A GOMITO – Nessuno vuole allontanarsi da Idomeni e dal confine con la Macedonia. Non si abbandona la speranza, in realtà sempre più remota, che a Skopje si cambi idea e si possa riprendere il lungo cammino verso un qualsiasi luogo che possa dare asilo politico e una prospettiva di futuro ai migranti. Ma c’è anche la rabbia che ogni tanto esplode e porta a violenti scontri tra la polizia macedone e i centinaia di migranti che tentano di forzare un passaggio. Per non parlare della paura per i rischi sanitari denunciati da Medici senza frontiere tra cui pidocchi, scabbia ed epatite. “Il primo impatto non lo puoi spiegare a parole, – racconta Giammarco – è una sorta di sbalordimento in senso del tutto negativo. Appena poi ti muovi un po’ per il campo ti accorgi dell’accoglienza della gente; è paradossale come siano gli stessi migranti che per primi ti danno conforto, come se comprendessero il tuo disorientamento. C’è sempre molta collaborazione. Appena le persone che abitano il campo ti vedono fare qualcosa, come per esempio dei lavori manuali, ti aiutano. Questo fa sì che i rapporti umani si creino immediatamente e si cementino nel giro di poche ore. Tutti ti salutano, ti offrono qualcosa da mangiare e hanno voglia di raccontarti delle storie: sanno infatti che noi volontari possiamo essere dei megafoni per dare voce alla loro condizione, fare da tramite tra il campo e il mondo esterno. Creare dei legami è fondamentale perché puoi capire meglio i bisogni veri e propri della gente e dargli le giuste informazioni. Tanti infatti non sanno dove poter trovare un medico o un posto dove ricaricare il telefono, il tutto complicato dalle difficoltà linguistiche del caso. La maggior parte infatti sono arabi e non conoscono l’inglese”.

Idomeni profughi

UN GIORNO AD IDOMENI: VOGLIA DI TORNARE A VIVERE – È la noia a regnare sovrana tra le tende colorate che si fanno spazio nel fango del campo. Per coloro che le abitano la giornata sembra non passare mai e le ore sono scandite dall’attesa. Non soltanto l’attesa di capire il proprio destino ma anche quella per fare le cose più semplici: da prendere il tè ad andare in bagno, tutto si concretizza in una fila interminabile. “C’è chi si è organizzato per mettere su un chiosco di fortuna e vende da mangiare. Si sta creando una specie di economia di campo“, riportano i giovani, che sottolineano quanto sia importante anche solo scambiare qualche parola con persone nuove per ‘la gente di Idomeni’. Persone che sono ben consapevoli della situazione che stanno vivendo ma del tutto disorientate rispetto a cosa devono fare: non arrivano risposte ma soltanto “fogli che la polizia greca fa passare ogni giorno per spingere i migranti a lasciare la zona e trasferirsi nei campi governativi”. “Il fatto – spiegano – è che questi ultimi versano in condizioni probabilmente ancora peggiori: le associazioni umanitarie non possono entrare, inoltre saresti chiuso in un luogo delimitato da militari e filo spinato. Sicuramente non il massimo per gente appena fuggita da un conflitto”, continuano i ragazzi di Art Lab. Le giornate passano senza che sia possibile programmarle, tutto cambia ogni giorno, in particolare per via del meteo come precisa Thomas. “In una settimana di permanenza abbiamo visto tutte le condizioni climatiche possibili: dal vento che spezza le tende al sole cocente, passando per la pioggia che rende tutto una fanghiglia dove i bambini fanno fatica a camminare”. La costante però è una voce che si alza unica e valica le differenze linguistiche: “Open the border“.

“NOI NON CREDIAMO NEI CONFINI” – L’emergenza è esplosa due mesi fa, quando a marzo l’Unione Europea ha deciso di mettere fine all’afflusso incontrollato di profughi attraverso la rotta balcanica. Slovenia, Ungheria e Austria, i primi paesi al confine sud-orientale dell’Ue, come da accordi presi a Bruxelles, annunciano che accoglieranno solo poche decine di richiedenti asilo al mese, lasciando fuori tutti gli altri migranti. Immediata ovviamente la reazione dei Paesi nella parte meridionale della rotta: Croazia, Serbia e Macedonia chiudono a loro volta i confini per evitare l’ammassarsi di profughi al proprio interno. Chi era già in cammino si è così trovato bloccato non potendo più proseguire né tornare indietro. “Alcuni dei racconti più toccanti sono quelli di persone tanto rassegnate da dirti che avrebbero preferito morire sotto le bombe piuttosto che starsene in questa condizione di impotenza”, riferisce ancora Noemi spiegando poi che la maggior parte dei migranti vorrebbe vivere in Europa solo finché la crisi non sarà passata per poi tornare nel proprio Paese d’origine, dove ha lasciato tutto, in particolar modo le sue radici. Situazioni simili a Idomeni, anche se non così gravi, sono presenti ai confini settentrionali di Serbia e della stessa Macedonia.
È strano pensare al concetto di frontiera per un ragazzo europeo della nostra età – riflette Riccardo – noi siamo stati abituati ad avere libertà quasi totale di muoverci in giro fra le nazioni. Vedere con i propri occhi cosa significa veramente confine, barriera, è un’altra delle cose che ci ha spinto a partire. Noi non crediamo nei confini, per questo ci siamo voluti mettere nei panni di coloro che stanno vivendo in un vero e proprio limbo. Abbiamo toccato con mano la brutalità dei muri, la violenza che le barriere generano e che inciderà profondamente nelle vite di coloro che oggi vivono ad Idomeni, soprattutto i bambini che rappresentano il 40% della popolazione del campo.” Per approfondire l’esperienza di viaggio e condividerla con i cittadini, i ragazzi di Art Lab organizzano un incontro mercoledì 11 alle ore 21.00 in Borgo Tanzi 26.

di Andrea Prandini e Filippo De Fabrizio

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