Silvia Marchelli, dentro l’apartheid nero del Burundi

LA VITA PER L'AFRICA DELLA PRESIDENTE DI PARMAALIMENTA

Silvia Marchelli alla Maison ParmaQuando la gente parla di lei in Burundi, alcuni dicono: “Silvia è nata a Kamenge e cresciuta a Mumbimbi tra il ’94 e il ’97”, e altri invece: “È nata a Mumbimbi e cresciuta a Kamenge”. Silvia Marchelli, 53 anni, fisico asciutto e voce decisa, è medico e presidente dell’associazione Parmaalimenta, costituita nel 2004 e già operativa in Burundi nel 2006. L’organizzazione si pone tra gli obiettivi principali quello di promuovere un progetto di cooperazione decentrata, che porti a un’effettiva autosufficienza economica, oltre che sociale e culturale, del Paese, attraverso un programma di microcredito, formazione e educazione dei lavoratori e delle donne burundesi.

L’esperienza in Africa di Silvia, però, inizia dodici anni fa, quando il Burundi era ancora una dittatura che viveva un apartheid nero, nel senso che c’era una minoranza di etnia Tutsi al potere che dettava le regole alla maggioranza Hutu. Quando Silvia racconta la sua storia in Burundi è un fiume in piena, si ferma solo per prendere fiato, sorride pensando a quanta vita ci ha messo lì dentro e batte i pugni sul tavolo quando pensa a quanto lavoro c’è ancora da fare. Oggi Silvia vive a Parma, lavora nell’ufficio della sua associazione Parmaalimenta in via Garibaldi 34. Un piccolo locale, con tre scrivani: l’essenziale per poter mandare avanti il suo progetto autofinanziato da lei e altri giovani ragazzi. Continua ancora oggi a fare brevi missioni umanitarie ma principalmente si occupa di fornire un supporto a distanza. Perché per dare a queste persone la possibilità di farcela con le proprie forze, bisogna supportare e non assistere, seguendo la filosofia: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.”

È singolare la scelta del Burundi.

“È capitato, non è stata una scelta. Il Burundi per me è stato importante per la storia con la gente, perché essendo impegnata politicamente, negli anni in cui si diffondeva il pacifismo tra i giovani, la lotta all’apartheid, il mito dell’America latina di Che Guevara, quando ho incontrato questo Paese non ho incontrato solo un Paese povero africano, ho trovato un Paese che cercava la democrazia, che si stava liberando dall’apartheid, dall’ingiustizia e ho incontrato uomini e donne che parlavano delle stesse cose di cui parlavo io. Mi raccontavano le loro storie: erano poveri, vivevano in situazioni particolari, ma mi hanno raccontato la loro dignità di esseri umani. Poi alcuni di loro hanno fatto delle scelte armate, ma io so che l’hanno dovuto fare perché non vi era altra possibilità”.

Quando è partita per la prima volta?

“Nel 1992, avevo 31 anni ed ero già medico, poi sono tornata nel ’93 e di nuovo nel ’94. Ho scelto di partire con i saveriani di Parma nei cosiddetti quartieri nord, per cui mi sono trovata a guardare l’Africa dal punto di vista sì del missionario, ma in modo laico.
Il Burundi è un Paese che nel ’92 inizia ad aprirsi con il primo disegno di democratizzazione dell’Africa, voluto dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Gli americani spingono la dittatura militare ad approvare il multipartitismo e nel ’93 ci sono le prime elezioni democratiche di tutta l’Africa, che vedranno come primo presidente Melchior Ndadaye, che era stato fuori dal Paese, era rientrato, era stato perseguitato e dopo soli tre mesi è stato ucciso e deposto con un colpo di Stato. Ed è iniziata la guerra. Una guerra etnica, fatta di stragi, una guerra che non si conosce, a differenza di quella in Ruanda”.

Ci può raccontare una giornata tipo durante la guerra?

“Lavoravamo in un centro nei quartieri nord, unico punto di riferimento per cui arrivavano molti giovani, e in cui abitavo io e un saveriano. Al mattino uscivo con la macchina da sola per andare in città, solo dopo aver contattato i militari e le Nazioni Unite per sapere se le strade erano percorribili. Andavamo a fare la visita nei centri sanitari, ci occupavamo di vaccinazioni, somministrazione dei farmaci e nutrizione dei bambini. Non riuscivamo a trasportare i malati perché i militari non permettevano di farli passare ai posti di blocco, infatti è stato anche l’unico territorio da cui la Croce Rossa internazionale è andata via, ha lasciato il Paese, ne sono stati uccisi tre dei suoi. Per arrivare ai centri sanitari dovevamo oltrepassare i posti di blocco e avere il via libera dei militari e l’appoggio delle bande armate, quindi c’è stato bisogno di una grande diplomazia che ci ha permesso di raggiungere un’importante collaborazione, mediando tra i militari monoetnici e il governo delle vecchie elezioni democratiche. Lavoravamo anche con Ameco, la Commissione Europea d’emergenza e gli americani.
Il coprifuoco era alle sei, quindi alle tre tornavo a casa nei quartieri coi padri per non lasciarli da soli, e riniziavano a sparare. Ho visto e sentito cose complicate. Ho visto per sette volte i quartieri chiusi, rasi al suolo. È la guerra, e nella guerra si sopravvive”.

Che tipo di rapporto ha instaurato con i burundesi?

“Il burundese è estremamente chiuso, rispettoso e di parola, anche se non si sa mai cosa pensino realmente perché resti per loro un bianco, un ‘buzungo’. La differenza che c’è stata tra me e gli altri è che io non ho scelto di abitare in città, ma nei quartieri nord: chi lavora in emergenza non permette ai propri dipendenti di andare a rischiare nei quartieri, perché il pericolo è già alto. Per questo ho avuto un osservatorio molto particolare, che mi ha permesso di vivere in mezzo alla gente, in mezzo alle crisi e ho costruito relazioni umane con le persone, i militari che mi rispettavano, le bande armate. Pian piano abbiamo aperto i quartieri, che precedentemente erano stati divisi tra le due etnie del Paese, i Tutsi e gli Hutu. Mi conoscevano e mi proteggevano, e riuscivamo a creare un gruppo. Per me è stata un’esperienza drammatica e complicatissima però ho avuto una visione anche dell’umanitario, perché lavoravo con le Nazioni Unite e le ong, con dei veri progetti di cooperazione, in un periodo in cui c’è stato il boom dell’ aiuto umanitario”.

Qual è l’atteggiamento del mondo occidentale rispetto alle problematiche africane?

“Il problema principale è che tutti sono abituati a vedere l’Africa come l’Africa da aiutare, adesso che noi economicamente non abbiamo più possibilità sta sparendo la solidarietà. Invece ci sono ancora un sacco di cose interessanti da fare ma ci vogliono delle persone che sappiano auto organizzarsi perché abbiamo passato un periodo in cui tutto era già organizzato. Io vengo da un mondo capace di organizzarsi, eravamo volontari pure senza avere soldi. Poi a un certo punto sono arrivati i soldi ma mancavano i progetti. Adesso che i soldi non ci sono più forse torneranno fuori le capacità tipiche degli italiani, io me lo auguro.”

Qual è la situazione adesso?

“Intanto non c’è più la guerra. È finita nel 2006. L’anno prima avevamo una grande speranza data dal fatto che fosse stata vinta dalle bande armate e la situazione sarebbe cambiata, si avrebbe avuto un po’ di giustizia. Ma non è così, perché il potere è sempre potere. Da un punto di vista etnico è un Paese che sicuramente ha più libertà, nel senso che tutte e due le etnie hanno oggi un’opportunità. Quindi non c’è un problema etnico, ma c’è un problema di giustizia sociale, giustizia economica, come in Congo, anche se vi è ancora una grande distanza tra le due etnie. Fare pace in quelle zone significava cercare di mettere insieme le due etnie, cercare di farle parlare. E noi l’abbiamo fatto. Abbiamo lavorato nei quartieri nord a Bankiki con donne sia tutsi che hutu, il che prima non poteva succedere perché se ti trovavano nel quartiere sbagliato ti ammazzavano. Lì le donne avevano il potere assoluto insieme ai militari, avevano il potere di giustizia ed erano loro che gestivano i processi e la prigione. Poi sono arrivati gli uomini”.

 

di Francesca Matta, Chiara Cammelli, Martina Monti, Andrea Francesca Franzini

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