Billy Balestrazzi: “Diventare giornalisti non è impossibile, basta essere curiosi e non smettere mai di crederci”

DALLA VICENDA DI TOMMY D'ONOFRI A PIZZAROTTI: IL RACCONTO DI QUARANT'ANNI AL SERVIZIO DELL'INFORMAZIONE LOCALE

Gabriele Balestrazzi, meglio conosciuto come Billy, è stato per otto anni responsabile del sito www.gazzettadiparma.it, dopo aver diretto TvParma, emittente dello stesso gruppo editoriale che stampa anche il quotidiano più antico d’Italia. “Una mia collega mi ha dato questo soprannome sostenendo la mia somiglianza col protagonista del cartone animato ‘Billy the cat'” racconta. Innamorato della sua città (“I parmigiani sono gentili e aperti” dice) ha vissuto in primo piano l’evoluzione del giornalismo locale nell’era del digitale, tanto da aprire un blog una volta in pensione, arrivata dopo oltre 40 anni al servizio dell’informazione cittadina. “Il giornalismo non è solo un mestiere, ma un modo di osservare la realtà al quale è difficile rinunciare.”

Come passa il suo tempo ora che è in pensione? Abbiamo visto il blog ParmaBilly: l’idea di riposarsi proprio non la sfiora? 

“Devo confessare che la mia totale incapacità di cucinare e l’assenza di interesse verso il bricolage hanno giocato un ruolo fondamentale nella gestione del mio tempo da pensionato. Non mi piace neanche andare in giro a guardare come procedono i lavori nei cantieri. L’unica cosa che so fare, o che almeno spero di saper fare, è il cronista: aprire un blog mi sembrava un buon modo per continuare. Per moglie non è altro che il mio metadone per disintossicarmi dal giornale, però spero sia una bella cosa. Da pantofolaio questo mi dà comunque la possibilità di restare attivo e di muovermi: ad esempio ho preso l’abitudine di passare tutti i giorni da piazza Duomo e ogni volta ne resto incantato. Poi, una cosa nuova che ho iniziato a fare sfruttando questo tempo libero è suonare la chitarra: ne ho comprato una elettrica dopo averla osservata a lungo in una vetrina. Anzi, è stata lei a ‘chiamarmi’ e adesso sto imparando a suonarla, anche se ho già capito che mi ci vorrà del tempo.”

ImmagineHa mai pensato invece di fare politica? Cosa pensa di Pizzarotti e delle sue scelte?

“A pochi mesi dalle elezioni sono in molti a chiedermi se mi possa interessare entrare in quel mondo: sono in pensione da poco e ho, per così dire, una faccia nota, però credo che ognuno debba fare quello che è capace di fare. La politica è un mondo ad oggi lontano da me. La osservo da cronista e ammiro chi si impegna. Ho seguito con simpatia, pur non essendo un simpatizzante nè un elettore del sindaco Pizzarotti, quel gruppo di ragazzi che secondo me davvero in buona fede credeva di poter cambiare la città. Non so se ci siano riusciti, saranno gli elettori a darne il responso, ma sicuramente le recenti vicende li hanno lacerati. Mi piacerebbe che la politica fosse sempre meno estremista, non orientata solo verso il bianco o il nero, ma in grado di cogliere le sfumature, di riconoscere una buona idea a prescindere da quale sia la bandiera che la presenta.”

Lei è stato giornalista per più di quarant’anni, sia per Tv Parma che per la Gazzetta: in carriera qual è stata l’intervista di cui ha un ricordo migliore?

“Quella che ricordo con più piacere è l’intervista a Mia Martina, venuta a Parma nel 1992 per un concerto in piazza Duomo. Quel giorno era in grandissima forma, il concerto fu bellissimo ed era molto positiva, cosa che non le accadeva spessissimo. Al termine del concerto mi avvicinai per un’intervista televisiva, quindi con poco tempo a disposizione per instaurare un rapporto confidenziale con una persona che probabilmente non avrei più rivisto. E invece si creò subito creato un feeling pazzesco. Le feci una domanda sull’assurdo fatto che venisse additata come ‘porta sfiga’ nel mondo della musica, cosa che la portò anche a soffrire di depressione; in quell’occasione però mi rispose in modo tranquillo, regalandomi un’intervista breve ma davvero bella. Al termine mi diede anche un bacio sulla guancia: ho tenuto la foto di quel bacio nel cassetto per anni, credo che in un certo senso mi abbia portato fortuna.”

E invece qual è stata la storia più difficile o delicata che ha dovuto raccontare? Forse il caso del piccolo Tommy?

“La vicenda del piccolo Tommy l’ho vissuta in prima persona e sin dall’inizio. Ha segnato uno dei momenti cruciali della mia esperienza giornalistica per via del coinvolgimento emotivo totalizzante che ne è derivato. A un mese dal sequestro eravamo quasi tutti convinti di essere vicini ad una risoluzione positiva. Il probabile giorno della liberazione la redazione era in fermento, avevamo persino preparato degli eventuali titoli per festeggiare la liberazione del bambino. Alle sette di sera, però, il direttore venne informato da una telefonata che non ce l’aveva fatta. Vivere da vicino vicende come queste esula dal concetto di cronista o di lavoro. Quella storia ci era entrata nella pelle e nel sangue, c’era in tutti la voglia di fare qualcosa, di essere utili senza intralciare il lavoro degli organi preposti. Credo sia stata una delle prime volte che ho pianto sul posto di lavoro: dopo la notizia ho avuto qualche minuto di totale blackout e non ero neanche capace di riscrivere la notizia, tanta era la pressione emotiva. ”

Ha mai ricevuto pressioni da qualcuno mentre scriveva un articolo o conduceva un’inchiesta?

“Pressioni dirette non proprio, ma sarei ipocrita se non dicessi che lavorare per un giornale implica l’essere condizionati dalle idee altrui. Ad esempio del direttore, del caporedattore e così via. Persino ora che ho un blog per cui rispondo solo a me stesso sono implicitamente vincolato dalle mie idee. Chi mette su un giornale non lo fa per volontariato, ma anche un po’ pensando che possa essere utile. Cambiando giornale, direttore, redazione, cambiano spesso anche i contenuti. Quello che io ho sempre cercato di fare e quello che posso consigliare anche ai futuri cronisti è scrivere quello che si ritiene giusto raccontare e pensare, a prescindere da quale sia il giornale in questione. Insomma, essere coerenti con se stessi è fondamentale per essere soddisfatti.

10349868_236399309904452_4084501951563016474_nSecondo lei nel mondo del giornalismo il passaggio dal cartaceo al digitale è stata un’evoluzione per la diffusione di notizie o rappresenta un limite?

Da un certo punto di vista quella che stiamo vivendo è sicuramente un’involuzione. Il web ha sì un potenziale straordinario, ma la sovrapposizione dei social e i nuovi mezzi di diffusione falsano la percezione delle notizie, alle quali orami si arriva per sbaglio scorrendo una bacheca e ritenendosi informati solo perché per caso si è letto un titolo. Ma anche il modo di percepire le notizie stesse è cambiato: la notizia del giorno non diventa più quella effettivamente più rilevante, ma la più cliccata o più condivisa. E non sempre questo garantisce una giusta informazione. Un altro problema è il fatto che ci si ferma a leggere il titolo ritenendo in tal modo di conoscere il contenuto dell’articolo senza averlo nemmeno aperto.”

Cosa accade invece quando si scrive in un blog? Il linguaggio usato è diverso e ci si sente più liberi di esprimere il proprio pensiero?

“Posso esemplificarlo al meglio facendo riferimento al libricino che ho pubblicato qualche tempo fa, intitolato ‘Ho rubato mille vite’. Il giorno prima di andare in stampa ho cercato in tutti i modi di far cambiare il titolo, perché mi spaventava l’uso della prima persona singolare. Sul web è naturale parlare in prima persona mentre da giornalista non l’ho mai fatto: ritengo che il giornalista debba in qualche modo sparire dietro la notizia. Il titolo è rimasto quello, perché al centro restano le vite degli altri, quelle che ho raccontato. Cambia molto il modo di fare giornalismo tra blog e giornale, ma anche con la tv: le situazioni non sono tutte uguali, in televisione ogni emozione viene scoperta, mentre sulla carta queste sono meno tangibili, così come sul web. L’empatia però cresce e ci si concede l’uso dell’io perché il soggetto sei tu. E quello che scrivi è una tua responsabilità.”

Parlando proprio del suo libro, lei ripercorre quarant’anni di carriera e definisce quello del giornalista, il “mestiere migliore del mondo”. Che consigli può dare ai ragazzi che vogliono diventare giornalisti? Alla fine di tutto ne vale la pena?

“Molta gente suggerisce a chi vuole fare il giornalista di cambiare idea, di cambiare sogno. Molti giornali hanno ridotto la propria redazione a quasi più della metà: quando ho iniziato eravamo più di quaranta, ora il numero continua a scendere, si manda via della gente e la situazione probabilmente peggiorerà. Però, nonostante questo, io sostengo che se si vuol fare i giornalisti, se si ha questa passione, è giusto provarci e crederci. Non è detto che si troverà subito un posto di lavoro, soprattutto non fisso, però in tutte le cose bisogna essere curiosi. Credo sia questa la peculiarità del giornalista: la curiosità. Trovare la notizia giusta, la chiave di lettura adatta e il modo corretto per raccontarla: se si riesce a far questo, le basi per svolgere il mestiere più bello del mondo ci sono. Bisogna solo continuare a costruire.”

di Fiorella Di Cillo, Francesca Iannello

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