Via Zamboni 36: sicurezza contro libertà?

L'INUTILE GUERRIGLIA ALL'ALMA MATER PER I TORNELLI IN BIBLIOTECA

Scontri Zaniboni 36Tra i banchi dell’università così come sui principali giornali nazionali, da giorni si parla di una notizia che in apparenza potrebbe sembrare solo l’ennesima esagerazione di pochi, un fatto che riguarda la facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. A fare da palcoscenico a questa storia è stata la biblioteca di Bologna, nello specifico quella di Discipline umanistiche in via Zamboni numero 36, per accedere alla quale l’Ateneo ha deciso di installare dei tornelli che ne garantissero l’accesso ai soli studenti dotati di badge. Una scelta decisa per assicurare ai ragazzi iscritti all’Ateneo bolognese un posto sicuro in cui studiare ma che non è stata interpretata così da tutti: ci sono stati gesti di disobbedienza civile da parte di alcuni giovani esponenti di collettivi, un’occupazione e di seguito uno sgombero e infine diversi scontri con la polizia.

Una situazione quindi complicata perché se da un lato la questione dei tornelli evidenzia quantomeno l’esagerazione delle azioni dei giovani estremisti (dato che sono innumerevoli le biblioteche universitarie italiane che, per questioni di controllo e sicurezza, escludono l’accesso ai non iscritti), dall’altro secondo la legge italiana le forze dell’ordine non possono intervenire all’interno di istituti scolastici o universitari, se non con il consenso espresso del preside o del rettore. “Mettere i tornelli forse è anche giusto, ma dare manganellate mi sembra brutale“, ha giustamente riassunto Francesco Guccini. Fatto sta che oggi la biblioteca è devastata e inagibile e per molti, studenti bolognesi inclusi. Come si è arrivati a tutto questo?

downloadDella possibile installazione dei tornelli si parlava da mesi, e per ragioni di sicurezza: già Francesca Tomasi, presidente del comitato scientifico della biblioteca, aveva raccontato che all’interno della biblioteca, che negli anni aveva allungato l’orario di apertura prima oltre le 17 e poi fino a mezzanotte, alcuni studenti avevano assistito ad episodi di furti e spaccio. Non tutti però sembravano realmente preoccupati da questa situazione. Solo a seguito dell’effettiva installazione dei tornelli la mobilitazione è esplosa. Il 23 gennaio, infatti, il Collettivo Universitario Autonomo, gruppo studentesco di estrema sinistra, aveva organizzato una protesta: la porta di emergenza della biblioteca era stata aperta per evitare i tornelli ed erano stati appesi striscioni con scritte come “Viva il 36 libero” o “Il 36 non è una banca” fino ad un vero e proprio ultimatum rivolto all’Ateneo: “Avete 72 ore di tempo per rimuovere i tornelli dal 36 (…) I tornelli impediscono di entrare liberamente a chi è sprovvisto del badge universitario, ciò è inaccettabile per la natura di questo luogo di aggregazione e accoglienza. La situazione di poca sicurezza nei confronti degli studenti e dei lavoratori non si è mai verificata e siamo noi studenti a garantirla”, sosteneva il Collettivo.
A questo punto il boicottaggio dei tornelli è passato dalle parole ai fatti: l’8 febbraio gli studenti del Cua hanno deciso di smontarli e portarli alla sede del rettorato. L’università ha chiuso la biblioteca ma gli attivisti del Cua l’indomani sono rientrati nei locali riaprendo l’edificio e occupandolo, sostenendo che non sarebbero andati via senza un confronto con l’Ateneo. Ma le cose si sono evolute diversamente: intorno alle 17.30 la polizia in assetto antisommossa è entrata nella biblioteca per sgomberarla, caricando e manganellando gli studenti presenti che hanno reagito lanciando sedie e banchi. Gli scontri sono continuati anche fuori dall’Università, fino in piazza Verdi, dove sono state improvvisate delle barricate con le campane per la raccolta del vetro e cartelli stradali distrutti. Poi altre cariche da parte degli agenti e infine due studenti sono stati arrestati, in un clima che potrebbe ricordare (ma solo in apparenza) i movimenti degli anni ’70.

Ma, per fortuna, qualcuno che preferisce metodi diversi c’è ancora. E sono proprio gli studenti bolognesi che, per dissociarsi dagli “atti vandalici” del Cua, hanno lanciato una petizione sul sito Change.org che ad oggi ha raccolto più di 8.200 firme. Gli studenti sostengono che la colpa sia dei militanti dei collettivi che, a detta di alcuni, non hanno colto l’utilità dei tornelli, necessari invece in una biblioteca universitaria, e che, per sua natura, deve quindi accogliere innanzitutto i giovani che pagano le tasse per averne diritto. Ma qui si finisce per sprofondare nell’antica questione dell’accessibilità dei beni pubblici: l’università è legalmente un luogo pubblico e in quanto tale è per definizione aperto a tutti, a differenza di una privata che limita ai soli iscritti l’accesso ai locali. Negare questa distinzione significherebbe forse favorire l’introduzione di logiche privatistiche e quindi stravolgere il senso stesso dell’università pubblica.

Quindi l’occupazione, la violenza, i fumogeni sono la risposta?

Sicuramente lo sono stati, ma questo tipo di interventi è semplicemente ingenuo e poco lungimirante: pone l’attenzione su un problema percepito neanche da tutti risicando soluzioni valide solo a breve e medio termine ma che nel lungo periodo non fanno che acutizzare le separazioni sociali tra ‘noi’ e ‘loro’, ‘dentro’ e ‘fuori’.
Nel caso bolognese sarebbe forse stato più utile dimenticarsi per un momento fazioni e divisioni, mettersi a faccia a faccia usando il tanto antico quanto efficace metodo del dialogo e capire insieme quale sia il ruolo di ognuno, in particolar modo quello di alcuni studenti che troppo spesso sono ‘contro’ e basta. E qui, sia da un lato che dall’altro, i protagonisti di questa storia hanno dimostrato una violenza inaccettabile sotto ogni punto di vista, soprattutto se l’obiettivo è di intervenire su un sistema che sicuramente ha bisogno di essere messo a posto ma non d’istinto, non così.

Un antico proverbio dice che “quando il dito indica il cielo lo stolto osserva il dito”. E così il caso di Bologna: occupare una biblioteca come se ciò bastasse a riguadagnarsi un diritto allo studio oggi troppo spesso negato, è guardare il dito e inneggiare ad un libero sapere che certamente non andrebbe così rivendicato.

 

di Fiorella Di Cillo

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