Piccole storie sulla corriera della Tanzania ‘normale’

AFRICA VERA | DIARIO DI VIAGGIO, CAPITOLO TRE

Terzo appuntamento con il diario dalla Tanzania di Jacopo Orlo, membro del progetto Overworld. Leggi gli altri capitoli di Africa Vera. | 

Corriera TanzaniaIl pulmino inizia a sbuffare.
Manca poco alla partenza, si lamenta perché siamo in ritardo. Sono le 6.40 del mattino, l’aria ancora piena dell’odore dell’alba. Il pulmino deve percorrere 18 km di statale, con il traffico senza fine di Dar un’ora di viaggio. Ha fretta di portare i suoi passeggeri a destinazione per iniziare un’altra giornata al campus di Ingegneria e Tecnologia della St. Joseph University.
Così deve fare la gialla corriera: avanti e indietro a trasportare professori, assistenti, tutor, segretarie. Da Changanykeni a Mbezi. Per la strada dissestata il pulmino parte, cigolando tra una buca e l’altra. Scende verso Mlimani, immettendosi nella tangenziale di Dar.
Assieme a noi c’è Vasanth, il professore indiano del corso di ‘computer science’, che ogni mattina si siede qualche posto avanti a noi. Nelle poche volte che parlo con lui ho qualche difficoltà a capire cosa mi dice in inglese, per via dell’accento indiano. “Non preoccuparti, ti comprendo: quando spiego qualcosa ai miei studenti in classe magari devo ripeterlo due o tre volte”, mi tranquillizza.

In questi giorni nel corso del tragitto ho incontrato volti nuovi mescolarsi con alcuni già noti nel corso del solito tragitto. Ad esempio rivedo Lugata, il professore di zoologia del giorno di presentazione alla St. Joseph University, saluto Matìas e Pius, giovani assistenti dei tutor di ‘computer laboratories’, sguardi furbi e sorriso sulle labbra. Altri loro coetanei si siedono sui sedili usurati, cuffia nell’orecchio e telefonino in mano. Orologi luccicanti si scoprono sotto il polso delle loro eleganti camicie. Durante il viaggio i passeggeri ridono e scherzano, mentre, qualcuno si riaddormenta oppure legge il giornale scritto in swahili. In fondo al bus alcuni di loro si intrattengono con le mie colleghe, provando a dire qualcosa in italiano. Qualcuno ha continuato a studiare per proprio conto, oltre a seguire il loro corso a Mbezi.

Ad una fermata vicino a me si siede Yusuf, il gentile ‘gigante’ bibliotecario del campus di Ingegneria. Considerato l’orario, gli domando quando si alza al mattino per prendere il bus. “Mi sveglio attorno alle sei, mi preparo e mi incammino per strada fino alla fermata, che devo raggiungere prima delle sette”. Mentre osservo il bus fermarsi in una delle tante pensiline anonime in lamiera di Dar, chiedo a Yusuf informazioni sull’arrivo e la partenza di una corriera: “In questi giorni ho visto che non ci sono orari o indicazioni delle fermate sul percorso di un autobus. Quindi, come fa il mezzo a sapere esattamente il posto dove lo stai aspettando?”
“L’autista conosce la fermata del bus – risponde conciso – perché ogni giorno lo aspettiamo lì, quindi sa dove siamo. Alcune volte facciamo venire l’autista chiamandolo al telefono.” Come anche in altri contesti, le informazioni, come gli orari degli autobus oppure delle lezioni, circolano in larga parte per via orale; difficile trovare materiale informativo se non chiedendo direttamente all’istituzione di riferimento.
Un’altra mattinata faccio la conoscenza di Fidelis, assistente di ingegneria civile. È molto riservato, con un timbro di voce leggero. Ripete spesso che le cose non sono facili. A marzo parteciperà in una manifestazione internazionale di costruzioni in legno come rappresentante della Tanzania per il secondo anno di fila. “Ma ci sono problemi per il visto americano, dato che l’evento quest’anno si tiene lì”, mi spiega mentre mostra il progetto sul quale sta lavorando. È contento ma rimane con i piedi bene a terra.“È un concorso impegnativo, che però crea occasioni per chi vuole lavorare in quell’ambito”.
“Quanto è difficile trovare opportunità simili in Tanzania?”, gli domando.
Il problema in Tanzania è come trovare i contatti con le persone. È importante avere conoscenze fuori, come in India o in Australia. Mi piace incontrare gente diversa, puoi migliorare le tue capacità, in particolare con gli italiani. Ma non è facile.”
“Quindi il futuro lo vedi lontano dalla Tanzania?”, domando provocatorio. “Mi piacerebbe rimanere qui perché quando vai in cerca di opportunità al di fuori non è facile – risponde sicuro Fidelis -. Come puoi vedere qui in Tanzania abbiamo tanti materiali, ma il problema principale qui è aspettare molto per trovare lavoro. Inoltre, se le opportunità ci sono, vi accedono solo chi ha i soldi.” Però precisa subito: “Ma ho le capacità per poterci provare”.

Anche al ritorno verso casa è una conoscenza continua. Un pomeriggio provo a sedermi davanti, in uno dei posti liberi vicino all’autista, ma il gruppo delle donne mi osserva preoccupato. Ho turbato la quiete dell’abitudine. Mi alzo, scusandomi, per scivolare imbarazzato verso il fondo del pulmino. Prendo posto accanto ad Awadhi, assistente al laboratorio di ‘technical engineer’. Ha la mia età, modi sbrigativi e perentori. Come già mi è capitato in altre situazioni, il colore della mia pelle suggerisce subito ai tanzaniani la domanda: “Da dove vieni?”.
Molti di loro conoscono l’Italia perlopiù per il calcio, altro tema che salta fuori spesso sul pullman. Pochi conoscono ad esempio la nostra cultura artistica o culinaria, note in tutto il mondo. Roma, Milano, Firenze, Napoli o addirittura Genova le associano alla tradizione pallonara. Così, tra ragazzi della stessa età, anche in Tanzania il calcio fa capolino negli argomenti di compagnia. Il campionato inglese è ciò che veramente li appassiona. “La Premier League è la più bella del mondo”, mi dice Awadhi. È tifoso del Chelsea, “ma solo perché c’è coach Conte!”. “Ma quindi prima tifavi Juventus?”, gli chiedo scherzando. “Certamente! Ecco perché conosco un poco la lega italiana – ridendo – io tifo l’allenatore, non il club!”. Il tutto mentre il bus inserisce la quarta, gareggiando con i suoi rivali dala-dala, a colpi di clacson e fumo di smog. Domando del loro campionato, ma non ne parla volentieri. “È noioso – si lamenta un suo amico in piedi – per fortuna che c’è la Coppa d’Africa in questo momento”. “E per chi tifate?”, chiedo loro. “Camerun, ovvio – dice Awadhi – sono forti quest’anno!”
“Scherzi? Il Ghana è sempre il favorito”, ribatte l’altro.

Quando Awadhi ed il suo amico scendono alla loro fermata, vado a salutare Matìas. Ci siamo già presentati nei primi giorni al campus di Ingegneria. Non conosce nulla dell’Italia, a parte la pizza. Parlando del più e del meno, gli descrivo il mio grande piacere per i bajaji. Appoggiato al finestrino, un suo amico ascolta incuriosito la nostra conversazione: “Perché, come funzionano i mezzi di trasporto in Italia?”. Gli spiego della tabella con gli orari ad ogni fermata. “Abbiamo la metro, il bus, i tram, i taxi”, aggiungo. “Noi abbiamo diversi veicoli: il dala-dala, il bus, il picki-picki (la motocicletta, ndr) e il bajaji – elenca Matìas –. Il primo è il più economico, costa tra i 400 e i 600 scellini, è la corriera che copre ogni fermata del suo percorso; ogni dala-dala ha due kala (linee, ndr), indicate sulla parte anteriore del mezzo. In ogni caso, quando arriva arriva, non c’è un orario definito. È sempre pieno di gente”. “Poi c’è il bus, che costa un poco di più ma è veloce perché ha meno fermate – prosegue l’amico in camicia scura – sono quelli blu, separati dal traffico in corsie preferenziali”. “Infine ci sono i picki-picki e i bajaji che sfrecciano in mezzo al traffico e, oltre a essere costosi (tra 3000 e 6000 scellini), sono anche pericolosi – chiude Matìas -. Però un picki-picki dovresti provarlo, è divertente.”

Corriera Tanzania 2Nel frattempo due ragazzi seduti accanto mi guardano interessati, con una cuffia appesa all’orecchio. Non appena Matìas scende, il giovane più vicino mi chiede di dove sono e cosa faccio. “Sono italiano, sono qui per un progetto interculturale, devo documentare la St. Joseph University”, rispondo. Mentre finisco di spiegare, il ragazzo emette un verso simile ad uno schiocco. “Cosa vuol dire?” domando stuzzicato dal suono. “Vuol dire che sto pensando – mi spiega ridendo – a volte con disappunto”. Così, in quegli ultimi minuti prima della loro fermata scopro che in Tanzania, a seconda della situazione, ogni suono emesso dalla bocca ha un suo significato. Uno ad esempio è il bacio: “Sta a dire  ‘ti voglio bene’ oppure serve per richiamare l’attenzione mentre passeggi”. “Oppure questo significa che ho qualche problema con te” – spiega l’altro ragazzo mentre emette una sorta di colpo secco con la lingua. Vorrei chiedere di più su quella cultura dei suoni, ma è arrivato il momento di salutarci. Uno alla volta, sulla via del ritorno, i compagni di viaggio scendono alle loro fermate, mentre il sole illumina i vuoti sedili impolverati. Il pulmino torna verso Changanykeni, cigolando ancora una volta tra una buca e l’altra della strada sterrata.

Appena scendiamo dal bus ci accoglie una bambina sorridente. È la figlia di Vasanth che si lancia tra le braccia del padre, mentre lui le accarezza la testa. “E’ bello trovare qualcuno che ti accoglie con la felicità in mano”, penso tra me. Finisce un’altra giornata, il pulmino va a riposare. Domani, come gli altri giorni, la sveglia suonerà presto.

 

di Jacopo Orlo

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