Quando 9.700 lire divennero 5 euro: Maastricht e un sogno da preservare

A 25 ANNI DALLA NASCITA DELL'UNIONE EUROPEA, TRA CHI LA DETESTA E CHI SI SENTE EUROPEISTA

_57202123_109948474di Carmelo Sostegno |


“Ecco, piccolo mio – sussurrò la madre, non appena gli appoggiò la mano sulla spalla – qui ci sono i tuoi soldi nuovi!” Restò come pietrificato. Quel vecchio salvadanaio stipato di monete, un patrimonio di 9.700 lire che con cura aveva racimolato, gli ritornava tutto compresso in una sola, piccola, misera banconota da cinque euro. “Questi sono 5 euro” – riprese ancora la madre – “E 5 euro è il valore di tutte quelle tue monetine!”

Quella mattina era l’1 giugno del 2002 e tutti accorrevano al cambio delle lire. Alcuni ricordi restano nitidi nel tempo. L’euro cominciava a penetrare le strade d’Europa (non proprio tutte), consegnando un principio di concretezza al ‘proposito dei tempi’, all’obiettivo primo di quel non troppo lontano ’92. In quell’ anno, precisamente il 7 febbraio, tra le rive della Mosa, nella cittadina di Maastricht, i 12 paesi appartenenti all’ancor più antica Cee firmavano infatti uno dei più importanti trattati alla base dell’attuale trama europea. Nasceva così il Trattato di Maastricht (noto anche come Trattato dell’Unione Europea): 252 articoli, 17 protocolli, 31 dichiarazioni che vivisezionavano la storica convinzione post secondo conflitto mondiale di una necessaria quanto salvifica unione politica ed economica di tutti i Paesi del vecchio continente. La libera adesione d’ogni Stato avrebbe restituito prosperità, forza, aiuto. La cooperazione come concetto, vivo per molti anni, veniva soppiantata dall’idea di ‘progressiva integrazione economica e politica’.

Venticinque anni dopo, ecco l’anniversario del Trattato di Maastricht. Siamo nel febbraio 2017 e la situazione è un po’ diversa, gravida di dubbi e vuoti di memoria. Da un lato il Trattato di Lisbona del 2009 ha rimpiazzato i famosi tre pilastri di Maastricht con la ripartizione delle singole competenze tra Ue e Stati Membri; dall’altro la crisi economica dell’ultimo decennio ha gettato il trattato del ’92 nella profonda sfiducia che tutti conosciamo bene. Le gente non ricorda il Trattato di Maastricht. Non sanno cos’è, non rispondono ai perché. Qualcuno non ha nemmeno idea di cosa sia davvero l’Ue. Ma cos’è l’Ue? Tra le risposte più gettonate c’è il tautologico “NO, MA” che per i più grandi significa: “non so cosa prevedeva il Trattato, ma questa Europa è una sofferenza, un fallimento. Si stava meglio prima dell’euro”. Per i più giovani significa “parlano solo di finanza, di debito, ma noi amiamo l’Europa! L’Europa deve essere altro, noi ci sentiamo europeisti!”
Cosa significa ‘detestare’ l’Europa, quindi, mi sono chiesto. E ancor più, amarla? Proprio adesso poi. Perché solo i più giovani si sentono europeisti?

L’EUROPA SU DUE BINARI – L’avversione verso l’Ue è il primo sentimento che sfugge alle labbra, quello d’istinto. C’è un ricordo difficile da scacciare. Quando l’Europa conobbe un periodo di grande prosperità infatti, il Trattato di Maastricht era lontano una ventina d’anni. Avevamo uno spazio da condividere e controllare, il mercato comune avrebbe dato i suoi frutti, e non prendervi parte avrebbe significato scivolare sui gradini più bassi. La Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) nel 1951, poi la Cee (Comunità economica europea) con l’abolizione dei dazi doganali nel ’58. Dai sei paesi iniziali si giunse ai 12 e nell’86 quel grande spazio per il benessere economico s’aprì alla libera circolazione delle persone. D’un tratto però, il progressivo sviluppo che rinvigorì l’anima europea soprattutto con l’arrivo dell’euro cambiò tragicamente direzione per alcuni Paesi. L’impazzata della crisi del debito di alcuni stati membri e il sempre più ingestibile flusso immigratorio iniziarono, e tuttora continuano, ad alimentare le politiche di austerity e il veleno xenofobo. Vivere in Europa comincia a diventare complicato, lo diventa soprattutto se non hai le idee chiare sulle tribolate avventure prestito-debito-bilanci-soglie; lo diventa soprattutto perché di Europa sembrano spuntarne ben due. Con la crisi, il ricordo crea dovunque una sofferenza anti-europea molto simile a quella così infantile che il bambino provò di fronte ai 5 euro. Tutte quelle monete sparite, tutto quella ricchezza contratta. La difficoltà, il pessimismo, la mancanza di fiducia diventano preda delle becere mansioni populistiche, sicché parlare di ‘–exit’, di brutta Europa, diventa facile propaganda, facile soluzione. Ciò crea un’idea di Europa diversa da quella pensata originariamente, una seconda Unione europea.

bandiereSENTIRSI EUROPEISTI – Lasciare la sorte del progetto d’Unione in balia del libero mercato è stato l’errore imperdonabile. Il fallimento più triste sotto gli occhi di tutti è proprio questa distorsione concettuale. L’Unione europea in superficie è quel che è: una trama di nevralgiche relazioni economiche, ma l’Europa originariamente pensata e progettata è tant’altro. Tra i propositi di Maastricht c’è un’Europa più completa, quella cui i giovani ‘europeisti’ aspirano: attenta ai diritti dei cittadini, alle politiche ambientali, allo sviluppo nei trasporti e nelle comunicazioni; c’è un Europa con un Parlamento europeo (che certo necessiterebbe dei dovuti rafforzamenti), una cittadinanza europea, un indispensabile principio di sussidiarietà. Insomma, c’è un’Europa pensata per i ‘cittadini europei’. E questa distanza tra il pensato e il costruito oggi assai viva, fa sì che “ognuno pensi all’Europa che vuole”. Quando per le strade i giovani parlano d’Europa lo fanno con una grossa sfiducia nelle istituzioni, ma non nel futuro. Per loro, per noi, quelli della generazione Erasmus, dirsi europeisti significa condivisione, scambio culturale: l’Europa del ‘sentirsi sempre a casa’.
Quando il salvadanaio ritornò al bambino dentro una sola banconota, deludeva ma donava. Parlare di Unione Europea tout court senza ricordarne i costi, i sacrifici, gli sprechi è oggi assai difficile, è vero, secondo alcuni pressoché impossibile. Sembra di trovarsi in mezzo a una guerra onomatopeica senza trincee: nessuno combatte, nessuno muore, ma tutti rimangono guardinghi o feriti gravemente. Ma parlarne ricordando gli obiettivi di quel lontano ’92, porli davanti a tutto, ecco, sarebbe un buon punto di partenza. Forse l’unico vero festeggiamento per celebrare questi primi 25 anni trascorsi.

Quella dell’Europa, in fondo, è sempre stata una storia di guerre da cui abbiamo tratto grandi insegnamenti. L’Unione Europea d’oggi è un altro di questi a cui bisogna credere.
Qualcuno sogna ancora gli Stati Uniti d’Europa.

 

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