Zanzibar, il retro quotidiano della cartolina

NELL'ISOLA DEL PARADISO, DOVE MUSULMANI E CRISTIANI HANNO CONFINANTI CIMITERI DIVERSI

Quarto appuntamento con il diario dalla Tanzania di Jacopo Orlo, membro del progetto Overworld. Leggi gli altri capitoli di Africa Vera. | 

DSC00872 (1024x768)La spiaggia è di fine sabbia bianca, nel mezzo di una vegetazione rigogliosa e dell’acqua cristallina del mare che si perde nell’orizzonte di un cielo celeste. A Paje, sulla costa orientale di Zanzibar che si affaccia sull’Oceano Indiano, c’è proprio tutto per la fotografia da cartolina. Poche parole servono per descrivere l’immagine della meta da favola che, bene o male, si conosce sulle riviste o grazie ai depliant delle agenzie di viaggio. Eppure anche in un luogo paradisiaco come quello di Zanzibar esiste una normalità. Il retro della cartolina, lontano dalle macchine fotografiche, dove l’oceano è il vero protagonista di piccole storie e problemi della quotidianità.

All’isola, quasi 80 chilometri al largo di Dar es Salaam, ci si arriva via mare o per mezzo di un aereo. Scelgo la prima opzione, con il traghetto che parte dalla baia di Gerezani a metà mattina; all’agenzia viaggi per andata e ritorno chiedono 55 dollari. Il battello è colmo di ‘pendolari’ che attraversano quel tratto di oceano tra Zanzibar e la terraferma al mattino presto per tornare poi indietro a casa alla sera: salito a bordo, molti si siedono sul tetto del traghetto, adibito a terrazza turistica. Il riflesso del telo illumina di luce gialla il sudore di studenti universitari; uomini in abiti da lavoro, donne col nero velo sullo sfondo blu marino. I grattacieli di Dar es Salaam si allontanano, il battello sospinto dall’alito di un oceano senza fine. Dopo due ore e mezza di viaggio la pigra imbarcazione arriva al porto di Zanzibar, dove uno stuolo di jahazi (barca a vela) e di mashua (piccola imbarcazione a motore) mi accolgono coi loro legni colorati. Una volta sbarcato, un’orda di tassisti cerca di afferrarmi per caricarmi. È Issa ad avere la meglio, maglietta nera della nazionale tanzana e la shashia marrone sul capo. Per 30 dollari mi porta fino a Bwejuu: “Di dala-dala (gli autobus locali, ndr) ce ne sono pochi sull’isola – mi dice sorridendo – ci impiegano due o tre ore a passare per le fermate”.

Mentre il taxi scorre nelle strade impolverate di Zanzibar Town, Issa mi intrattiene parlando degli abitanti dell’isola: “Qui in prevalenza sono musulmani, di cristiani ce ne sono pochi. Di conflitti non ce ne sono spesso, però bisogna stare attenti a come muoversi”. Mentre parla ecco comparire, ai margini della strada, una zona di confine di culture: due cimiteri, uno cristiano e l’altro musulmano di fronte all’altro. Un piccolo recinto all’aperto di croci di legno a destra , un lungo muro di mattoni a sinistra; all’interno riesco ad intravedere le lapidi, piccoli pilastri color ocra . “Bisogna stare attenti a dove ci si muove”, ripete Issa. “ In particolare a ciò che si dice in luoghi come questi”. La religione porta in scena un atipico e teso scambio di realtà; anche davanti alla morte la diffidenza per l’altro ancora permane. Per timore tolgo la collana col crocifisso dal collo, ficcandola in fondo alla tasca. Mentre usciamo dalla città, il panorama cambia diverse volte, ma la sensazione è che Zanzibar possieda i tratti del luogo turistico, a differenza di Dar es Salaam. Eppure, dai lampioni delle strade del centro di colpo mi trovo immerso nella foresta incontaminata del centro dell’isola. Attraversando l’entroterra, nella vegetazione rigogliosa di piante esotiche, affiorano sporadicamente case di mattoni e fango, o piccole strutture in legno e lamiera, quasi come se l’uomo avesse costruito le sue dimore disturbando la natura primitiva del luogo.

DSC00937 (768x1024)Arrivo a Bwenjuu, 50 chilometri a est dalla città, piccolo villaggio vicino alla spiaggia dei sogni di Paje che si affaccia sull’Oceano Indiano. Nascosti dietro alle palme e alla povertà delle case popolari, si trovano i resort con i tipici bungalow, luoghi paradisiaci per turisti dalle più che buone finanze. Ad accogliermi dentro uno di questi villini prenotato all’ultimo minuto è, per mia sorpresa, un’italiana: Alessandra, la contabile che da sei anni vive e lavora sull’isola, assieme alla sua piccola figlia Asia. La sera, in attesa della cena, scambio due chiacchere con lei, sentendomi un poco a casa. “All’inizio ero venuta qui per motivi di studio, poi ho iniziato a lavorare qua trovandomi bene, così ho deciso di trasferirmi – racconta la giovane donna -. La lingua non è stato facile impararla non avendola studiata, ce l’ho fatto parlandola per strada”.
“E con le persone dell’isola come ti sei trovata? Com’è la loro mentalità?” “Con la gente non ho avuto difficoltà; loro sono gentili, la mentalità è più aperta perché sono abituati al turista. Però è pur sempre un’isola musulmana – precisa Alessandra – quindi non si va di certo in costume per il villaggio, mentre sulla terra la mentalità è un po’ diversa”. Ecco che emerge un altro conflitto, un altro non detto nei discorsi che riguardano l’isola. Zanzibar e la Tanzania: due realtà separate, anche se sotto la stessa bandiera. Mi ricordano Lampedusa e l’Italia: unico tricolore, ma la percezione di sentirsi abbandonati dalla terraferma, dimenticandosi degli isolani e dei loro problemi. Zanzibar: un passato alla ricerca di un’autonomia da arabi prima e da inglesi poi, un presente pieno di ambiguità e di confini sfumati. Ancora adesso la semi-autonomia amministrativa dell’isola è oggetto di accese discussioni nella politica interna ed anche in quella internazionale.

Non solo l’identità di Zanzibar, anche la spiaggia diventa il palcoscenico per la scena della consuetudine di figure e scenografie inaspettate. Il giorno seguente, mentre passeggio sull’umida sabbia di Bwejuu e il sole comincia a splendere nel cielo cobalto, il mare glauco si abbassa, mostrando un fondale basso, fangoso e pieno di alghe. Sarà un chilometro e mezzo di bassa marea; all’orizzonte, vedo persone di diversa età con secchi e ami. Delle timide bambine avvolte nelle loro piccole tuniche colorate si avvicinano, in un misto di stupore e insicurezza. Capiscono la mia curiosità di andare laddove l’oceano si è ritirato; si offrono di giudarmi, attraversando un sentiero naturale rivelatosi in mezzo alle alghe. Incontro due giovani uomini con rudimentali attrezzi e pesci esotici di vario genere appesi alla cintura dei loro pantaloni; sono soddisfatti, hanno fatto una buona caccia. Dietro di loro, donne anziane con il vestito tirato fino alle ginocchia portano secchi carichi anch’essi di pesci, di panni da lavare, di acqua. Tornato a riva, un anziano pescatore sta risciacquando dei polpi appena catturati, dal manto via via sempre più chiaro mentre si asciugano al sole . “Li catturiamo laggiù nelle nostre trappole con la bassa marea– spiega sornione – ; “dopo averli puliti li vendo a 5000 scellini (2 euro), mentre al mercato costano molto di più. Però adesso mi dai la mancia per queste informazioni”, pretende l’uomo sistemandosi il berretto militare.

Tornato dall’escursione in mezzo all’oceano, ritrovo Alessandra dietro al bancone a compilare documenti. Mentre ordino da bere, chiedo qualche informazione in più sulla vita di Zanzibar. Nella nostra conversazione il mare è compagno e avversario nel trascorrere dei giorni dell’isola. Infatti sulla stessa strada d’acqua transito di umanità si muovono le merci per ristoranti, resort, bar, hotel. “Tutto arriva da Dar, è il motivo per cui i costi sono alti, non solo perché meta turistica – mi spiega Alessandra -. Tutto viene importato dalla Tanzania, e i costi già alle stelle continuano ad aumentare di anno in anno”. “Ma sull’isola ci sono degli ospedali?”, domando ripensando ai tanti bambini che ho visto sulla spiaggia. “Si, ci sono alcuni ospedali qui a Zanzibar, però personalmente ho partorito in Italia. Per le visite specialistiche è meglio andare a Dar, qui non sono proprio all’avanguardia”. È sabato pomeriggio, così spontanea mi viene un’altra domanda da giovane: “Ma qui a Zanzibar, o sulla costa, al sabato sera cosa si fa?”
“In città ci sono gli aperitivi, mentre nel resto dell’isola ci sono party quasi tutte le sere, però in posti diversi”.

Il giorno dopo, salutati i gestori del bungalow, intraprendo il viaggio di ritorno, ma il sole non concede tregua: l’asfalto è rovente, l’aria satura di calore. Così mi accoglie Stone Town, centro storico della città di Zanzibar. Secoli fa punto nevralgico degli scambi commerciali e della tratta degli schiavi, ora è patrimonio dell’Unesco. L’impronta del passato sultanato lo si può ancora vedere, nonostante la modernità con i suoi ristoranti affollati e gli alberghi insinuati nei vicoli ombrati. Dal bazar della città, con i suoi banchi e le sue strade coperte di teli dentro alle mure di forme arabesche, ai palazzi color avorio che si affacciano su quelle sinuose strade. Attraversato velocemente il centro, mi incammino per il lungomare, a pochi passi dalla città vecchia che finisce direttamente nell’acqua, dove le mashua e ragazzi che ridono e scherzano fanno da scenario di un tardo pomeriggio domenicale. Proseguo verso il porto, passando davanti al Museo di Zanzibar in legno bianco e all’antico dispensario verde acqua pieno di decorazioni ornamentali.

Scende la sera, il sole lancia gli ultimi sussulti arancioni nell’acqua prima di inabissarsi nel nero dell’oceano. Gli jahazi iniziano a ormeggiare, assieme alle ultime mashua cariche di passeggeri in arrivo dall’isola di Pange, dove si trovano le grandi tartarughe marine. Ombre nere giocano ancora a pallone sulla spiaggia, con gli ultimi spiragli di luce ad illuminare un cielo terso e dalle sfumature violacee. Il battello carica su di sé ancora una volta le stanche membra di uomini e donne. Allontanandosi dal porto, rimane fermo nella baia per diverse ore; deve rispettare la tabella di marcia, arrivando al mattino presto a Dar. Stavolta lo stesso battello ha sembianze diverse; la luce di pallide lampadine riverberano su passeggeri accampati dove possono: stesi per terra, rannicchiati sulle poltroncine, appoggiati alle loro valigie; l’odore di urina e di sporco sporco fa accompagna la brezza di terra. Nel buio della notte e nella quiete del mare, la barca scivola nelle tenebre senza approdo e senza meta. Ho trovato posto nel retro dell’imbarcazione, provando a chiudere gli occhi cullato dal caldo soffio di Zanzibar; mi saluta, prendendo lentamente la forma del ricordo nella mia memoria . Verso le 5 del mattino si affaccia il profilo del molo di Dar, dove le scie luminose si riflettono nell’acqua torbida. Sullo scenario delle piccole luci colorate di grattacieli e delle primissime luci dell’alba, mi riaddormento sereno. Giorno quarantacinque, sono a metà del viaggio.

di Jacopo Orlo

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