Studiare a Dar es Salaam, dove l’Università non ha la rete elettrica

MUSULMANI E CRISTIANI FIANCO A FIANCO PER SOGNARE UN FUTURO

20170117_104811 (1024x576)Mattinieri, col sorriso sulle labbra, camicie eleganti, di passo svelto. Così si presentano gli studenti della St. Joseph University, al campus di Ingegneria e Tecnologia di Mbezi, a Dar es Salaam. Più di 3000 giovani che ogni giorno vivono l’esperienza universitaria, l’ultimo gradino che li separa dall’opportunità di trovare un lavoro qualificato.

La giornata degli studenti universitari, come per molti degli abitanti di Dar es Salaam, inizia presto. Alle 7.30 del mattino le aule del campus accolgono i ragazzi e gli insegnanti; questi ultimi, assieme allo staff della St. Joseph University, si riuniscono in biblioteca per recitare le preghiere del mattino e per un rapido briefing della giornata. Prima delle 8 si può fare colazione nei piccoli locali in legno e lamiera posti all’ingresso del campus, dove servono latte o tè caldo con chapati (pane piatto tipico indiano, ndr) o maandazi (piccoli dolci fritti, ndr). “Mi sveglio attorno alle 6, mi preparo e vengo in università; le lezioni iniziano alle 8 e  finiscono alle 15,45 con un break e una pausa pranzo”, racconta Sambi, studente al secondo anno della laurea in Ingegneria civile.

Per i giovani della St. Joseph trovarsi a studiare all’università è ritenuto un onore. “Molte persone sono veramente povere e abbandonate, c’è un divario in termini di ricchezza – spiega Frida, studentessa di ingegneria civile – per questo motivo sento l’importanza ed il privilegio di essere qui”.
Ultima tappa del ciclo di studi basato sul modello anglosassone, sposato dallo stato tanzaniano, l’università dura, nel primo livello, dai 3 ai 5 anni, a seconda dei percorsi di laurea. “Quando finiamo la scuola superiore ognuno ha un suo ‘passmark‘ (voto per l’accesso all’università, ndr) con il quale ci iscriviamo all’esame di ammissione per l’Università – racconta Athuman, studente di Ingegneria informatica – nel quale viene anche chiesto allo studente di indicare cinque università della Tanzania, pubbliche e private, e per ciascuna le facoltà di interesse”. Al termine dell’esame, sarà poi il Ministero sulla base del reddito, dei punteggi ottenuti e delle preferenze del candidato ad indicare la futura sede: “Sta poi allo studente decidere se accettare o meno la sua destinazione”, ribadisce Athuman. Questa scelta crea non poche preoccupazioni. Le sedi universitarie si trovano solo in poche città della Tanzania, costringendo quindi gli studenti a trasferirsi. “Vivo vicino al college, in un appartamento con altri tre ragazzi; pago 15000 scellini al mese (6 euro, ndr). Molte volte gli studenti condividono la stessa camera per diminuire le spese. Non ho un lavoro, sono supportato dalla mia famiglia e da mio fratello, sono fortunato”, dice Theofilus.

Non va poi dimenticata l’annosa questione delle rette, specialmente per gli istituti privati come la St. Joseph University: una retta annuale può aggirarsi attorno al milione di scellini (420 euro, ndr). “Le rette sono veramente costose; l’università non fornisce alcun supporto agli studenti che non possono permettersi il pagamento delle tasse di iscrizione – sostiene drastico Theofilus – qui bisogna pagare per avere qualsiasi cosa.”
Per questo motivo molti studenti hanno anche un’occupazione. “Lavoro per un’azienda – racconta Athuman – che produce mangime per galline, due volte alla settimana durante la notte, certe volte fino alle 5 del mattino; per otto volte al mese mi pagano 228 dollari. Io ho avuto un’occasione d’oro: non toglie tempo al mio studio e non interferisce troppo con il mio ritmo di vita”.

DSC00093 (1024x768)Eppure, proprio perché i costi delle tasse universitarie sono alti, i servizi principali vengono garantiti, come la qualità delle lezioni, i mezzi di trasporto, i pasti offerti a prezzi ragionevoli. Qualche problema comunque rimane: può capitare che mentre si studia in biblioteca oppure si lavori nel laboratorio di computer science salti l’elettricità, spegnendo luci, ventilatori e soprattutto pc e rete internet, con sbuffi di stizza e il caldo pressante. “Abbiamo tre generatori di energia a benzina per l’intero campus – descrive Yusuf, il gigante bibliotecario – non ci sono allacci con la linea elettrica. Se l’energia viene a mancare l’università spende 70000 scellini ogni volta per riattivarlo.” O ancora, durante la stagione delle piogge, l’acqua passa per le fessure del tendone della mensa. “È vero, ci sono anche problemi nella mensa e con il generatore, ma non sono quelli più importanti – spiega Haruna, il presidente degli studenti del campus di Mbezi –. Le principali questioni che dovrebbero essere risolte sono quelle economiche e i prestiti per gli studenti che hanno carenza di denaro”. I gruppi studenteschi all’Università prevedono una struttura simile a quella del governo: hanno un presidente, vicepresidente e i ministri per i diversi ambiti della vita accademica, i quali si preoccupano di raccogliere i bisogni degli studenti. “Le loro richieste devono passare attraverso il parlamento interno, portando la questione al responsabile dell’ambito. È così che vengo a conoscenza dei loro problemi”, spiega Haruna. Tornando ai problemi il presidente ha le idee chiare: “Abbiamo bisogno di ampliare la biblioteca perché i libri non sono sufficienti; dobbiamo aumentare l’offerta dei libri a disposizione, non solo per motivi di studio, ma anche per poterli mettere a disposizione della comunità di Dar”.

Ma non ci sono soltanto numeri e malesseri. Esistono anche aspetti come l’integrazione religiosa all’interno del campus tra cattolici e musulmani che appare molto positiva. “Non c’è alcuna discriminazione”, afferma Benedict, uno dei responsabili del gruppo cattolico presente all’interno del campus che conta di 700 studenti partecipanti alle varie iniziative religiose. “Personalmente non abbiamo problemi con le altre religioni. Per il ruolo che svolgo ho l’opportunità di stare con gli altri e di imparare da loro. Alcune volte abbiamo piccole discussioni  ma in modo rispettoso”.

Continuare gli studi o trovare un lavoro?  “Vorrei fare un master, questa è la mia prima opzione ma vorrei anche trovare un lavoro – racconta Kisuda – . Vorrei studiare in un Paese straniero, che è il mio sogno: Regno Unito, America o forse Canada”. La St. Joseph University ha attualmente solo un programma di scambio internazionale limitato alla sola India, in quanto Paese di origine della congregazione che gestisce l’istituzione. Nel caso delle università statali, “esiste la possibilità di studiare in un Paese estero facendo richiesta per il corso che si vuole seguire e il nome dell’istituzione che si sceglie – spiega ancota Kisuda – e il governo può fare da sponsor se si hanno dei buoni voti”.

Sono le 5 del pomeriggio. Gli uffici universitari chiudono, lo staff della St. Joseph University inizia a rincasare, salendo sui pulmini che li riporteranno a casa o avviandosi a piedi verso la strada. Studenti continuano ancora ad andare a venire da aule e biblioteca, in attesa di giocare a basket con gli amici oppure di continuare a studiare fino alle 7 di sera. Un’altra giornata finisce, domani si ricomincia. Così la vita universitaria a Dar es Salaam scorre giorno dopo giorno, tra realtà e sogni di un domani da costruire con ottimismo.

 

di Jacopo Orlo

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