Fatima e i minori sottratti alle famiglie: dalla scomoda parte degli assistenti sociali

OGNI ANNO IN ITALIA 35MILA FIGLI ALLONTANATI DAI GENITORI, ULTIMI CASI A BOLOGNA E PAVIA

di Francesca Bottarelli |

Un velo sul capo, a differenza di tutti gli altri giorni, pronto a nascondere i capelli rasati. È questo lo scenario che qualche settimana fa si è presentato agli insegnanti di una scuola media bolognese, all’arrivo in classe di una ragazzina di 13 anni originaria del Bangladesh. La sua colpa? All’apparenza essersi sottratta alla decisione dei genitori di indossare il velo islamico hijad, secondo i dettami della sua religione. L’insegnante l’ha ascoltata e ricostruendo i fatti è emersa una situazione difficile e delicata in cui la 13enne ha raccontato di essere stata rasata a zero per non aver accettato di indossare il velo imposto dalla famiglia. Così, alla denuncia dell’istituto scolastico, su decisione degli assistenti sociali e del Tribunale minorile di Bologna, Fatima (nome di fantasia, ndr) è stata allontanata dalla famiglia e portata in una struttura protetta, mentre i genitori sono stati denunciati per maltrattamenti all’interno del nucleo famigliare con reiterate pressioni psicologiche. Mentre la situazione è ancora al vaglio delle autorità, i contorni di questa vicenda rimangono incerti. Più versioni in contraddizione l’una con l’altra si sono accavallate: la madre ha affermato di avere tagliato i capelli alla figlia perchè aveva preso i pidocchi a scuola, le sorelle hanno aggiunto che la religione non avrebbe avuto nulla a che fare con quel gesto, mentre la ragazzina ha ammesso che quello non era un gesto isolato, ma il concrettizzarsi di un avvertimento che la madre le aveva già inflitto tagliandole prima una ciocca di capelli. Taglio che, invece, secondo la sorella maggiore di 17 anni, Fatima si sarebbe procurata da sola. “Difficoltà di integrazione, chiusura, conflitto tra culture”, hanno urlato a gran voce i commentatori più estremisti, riportando in auge il tema della mancata integrazione religiosa e sociale e facendo subito tremare la comunità islamica bolognese che ha ricordato che il velo non deve mai essere un’imposizione, ma una “libera scelta”.
Qui, però, la religione c’entra ben poco, o per lo meno non sarà la protagonista di questa riflessione, in cui non si cerca un colpevole, né di sostituirsi alle forze dell’ordine o alla famiglia per far emergere la verità. In questa vicenda, come in tante altre passate tra le cronache dei quotidiani, c’è infatti un terzo protagonista di cui ci si dimentica spesso, nascosto tra le firme dei faldoni depositati nei tribunali e oscurato dalle sentenze dei giudici onorari, ma che gioca un ruolo centrale nella giustizia minorile: l’assistente sociale. Additati più volte di essere quelli che ‘tolgono i figli ai genitori’, il loro compito è regolato dalla legge 149 del 2001 che, in situazioni di degrado e abbandono, prevede il dovere di intervenire tramite il Tribunale per i minori su segnalazione della Procura della Repubblica italiana. Un compito difficile e importante, perché tra le situazioni di disagio rientrano violenze fisiche o psichiche, malnutrizione, mancata cura e soddisfacimento dei bisogni primari del minore, ma anche tossicodipendenza, prostituzione o delinquenza che riguardino in prima persona il genitore e che possono compromettere il rapporto con il minore. La mancanza di questi presupposti determina elementi sufficienti per impedire quanto sancito dall’articolo 1 della legge 149/2001: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.giudici_servizi sociali
Ma allora, quella degli assistenti sociali è una categoria fatta solo di orchi cattivi? Verrebbe da rispondere senza esitazione perché, dati alla mano, secondo la direzione generale del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, nel 2014 più di 14.000 minori sono stati accolti in famiglie affidatarie, quasi 15.000 nelle comunità. A rincarare la dose nei confronti del lavoro degli assistenti sociali si aggiunge un dato diffuso da Onlus Pronto Soccorso Famiglia che stima che il costo della sottrazione dei minori alle famiglie si aggira intorno ai 2 miliardi fra spese della giustizia e costi di affidamento, andando ad aumentare un ‘business’ più volte denunciato che coinvolge ogni anno in Italia circa oltre 35.000 minori sottratti alle famiglie d’origine.
C’è chi li accusa di avere troppo potere decisionale poiché sono i primi ad entrare in contatto con la famiglia e a redigere la relazione che influenzerà la decisione del giudice, chi li rimprovera di allontanare i minori con eccessiva facilità e chi li difende per la funzione che assolvono.
Oggi essere assistenze sociale appare più problematico di quanto si immagini perché significa svolgere una funzione che gioca sul filo sottile della responsabilità. In pochi però ricordano un elemento centrale di questa professione: il terreno in cui agiscono è quello fragile delle relazioni familiari, delle difficoltà e sempre più spesso della tragedia che porta alla duplice sofferenza. Decidere della vita di un minore implica calibrare con attenzione una scelta che lo vincolerà nella sua crescita, che lo influenzerà nella sua formazione e lo condizionerà nei rapporti interpersonali. Questa decisione, però, coinvolge anche un altro attore, rappresentato dai genitori. A prescindere dalle motivazioni, il senso di inadeguatezza nell’assolvere il ruolo genitoriale colpirà il nucleo familiare nella sua totalità, spezzando quei meccanismi di inclusione e supporto alla base.
Se però sono evidenti le criticità, riconoscere la professionalità dell’assistente sociale è essenziale: vedere nella sua funzione solo gli impatti negativi, quasi un ostacolo alla possibile risoluzione dei problemi, significa negare e nascondere le difficoltà interfamiliari. Affrontarle con figure qualificate equivale, invece, a percorrere la via verso il dialogo, la risoluzione e, perché no, a volte la prevenzione di situazioni limite che potrebbero degenerare anche solo in violenze indirette, verbali o psicologiche. Credere ancora oggi che gli assistenti sociali siano ‘quelli che portano via i figli’ significa rimanerefigli-contesi ancorati a un retaggio culturale retrogrado e chiuso, in cui non solo si sviliscono competenze e professionalità, ma soprattutto si demonizza un’intera categoria con eccessiva facilità. Oggi, gli assistenti sociali dovrebbe essere una risorsa per capire quale sia la situazione effettiva e aiutare il nucleo familiare attraverso l’ascolto attivo, il sostegno umano e il supporto psicologico. Spesso, su richiesta di un organo giudiziario, questo percorso culmina anche col reinserimento guidato nella famiglia in base ai singoli casi e non necessariamente sempre con l’allontanamento e la collocazione in una struttura protetta. Un condizionale d’obbligo perché, come ogni professione che ha a che fare con la vita delle persone, con il disagio del singolo e i possibili effetti distruttivi sul suo futuro e sulla crescita, è un lavoro che deve essere svolto con apertura, coscienza, tatto, abilità e intelligenza, senza pressapochismo. Essere assistente sociale non significa semplicemente svolgere un compito, ma assolvere una vera e propria missione. La storia della ragazzina bengalese, di Hina, che nel 2006 non volle sposare un ragazzo che la famiglia aveva scelto per lei e venne uccisa dal padre e dai fratelli, della sedicenne marocchina picchiata dalla famiglia a Pavia perchè, secondo quanto denunciato, aveva adottato usi e costumi occidentali, ma anche di chi, di qualsiasi etnia o religione, vive una situazione di disagio familiare, ne sono la continua testimonianza. In molti casi si sa, ancora troppo spesso ‘i panni sporchi si lavano in casa’: quando però i protagonisti saranno gli adulti del domani, la prevenzione dà la possibilità che drammatiche situazioni non degenerino verso un futuro senza ritorno.

 

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