Col cuore a Caracas: la crisi venezuelana nella voce di chi è fuggito

ELANIA, MARIA E QUELLA RABBIA DI CHI PUO' FARE POCO PER IL SUO PAESE

venezuela pavia“Come fai a dirle di non andare? Come fai a dirle di restare qui e aspettare con noi?” Sono le due domande che Elania, 37 anni, originaria di Caracas, rivolge più volte a se stessa guardando la sorella Maria, 39 anni, sotto l’incessante rumore della pioggia. In testa ha un cappellino che le nasconde appena gli occhi. Mentre tra le mani stringe un foglio bianco con su il ritratto di un uomo coi baffi. “A Caracas manca el pan al pueblo per colpa sua, Maduro. La gente scappa, ma poi vuole ritornare perché ama il Venezuela; perché il Venezuela non può morire così”.

Secondo i dati ISTAT 2016, in Italia ci sono quasi 6.000 Venezuelani. La maggior parte, il 21,1%, risiede in Lombardia. A seguire ci sono Campania, Abruzzo, Emilia-Romagna. Più donne che uomini. Andare via dal Venezuela non è così facile. Infatti, le variazioni annuali dei flussi di arrivo qui in Italia sono quasi impercettibili. “Andar via – spiega Maria – fuggire dal Venezuela è già da molti anni difficilissimo. La svalutazione del bolivar è un muro invalicabile. O quasi. Io sono arrivata da sola, con l’aiuto di Elania e di suo marito. Ma ho lasciato il mio compagno a Caracas. Forse mi raggiunge, forse no. Non credo di voler restare per tutti e cinque anni del permesso. Voglio tornare il prima possibile.”
Elania, invece, è qui con la sua famiglia dal 2011. Vive a Pavia, ha un bambino piccolo di appena otto anni. “Alle manifestazioni alla tv grida anche lui – sorride Elania, cingendo le spalle del figlio –. Per lui non è facile capire. Ma sentire i familiari, vedere come ho fatto io una sorella che scappa, sapere che si muore di fame: da qui in Italia è sconfortante. Ti senti come inerme. Como haces? I consolati sono pieni di Venezuelani che chiedono informazioni.”

Tutte le destinazioni vanno bene, per i Venezuelani. Non c’è solo l’Italia. Si parte verso il Brasile, gli Usa. L’Europa è un’ancora di salvezza. L’ostacolo della svalutazione, a detta da chi fugge come Maria, viene affrontato grazie anche all’appoggio internazionale. “In Venezuela, in particolare, si sono diffuse Ong che si occupano di agevolare l’espatrio per ragioni politiche. Finanziano il viaggio, si preoccupano di assicurarti l’arrivo a destinazione.” Cosa sono e chi veramente queste Ong, Maria non lo dice chiaramente.
E’ un’latra la cosa di cui le interessa parlare: “C’è bisogno che il mondo sappia cosa sta succedendo per le nostre strade, nelle nostre case. Quindi cercherò di fare il mio anche da qui. Nel frattempo ho presentato la richiesta di asilo a Milano. Aspetto. Poi vedrò cosa fare.”

vnC’è tanta violenza per le strade di Caracas. I giornali ne parlano ormai da mesi. L’1 Maggio di quest’anno, Maduro firmò un decreto per convocare un’assemblea costituente. “Perché – come lui stesso ha dichiarato qualche giorno fa – cambiare la costituzione è uno dei passi necessari per sedare le rivolte e proteggere il Paese dalla Mud.” La Mud (Mesa de la Unidad Democrática, la coalizione dei partiti di opposizione a Maduro) è però disordinata, disunita, invischiata in un acceso dibattito sui ‘mezzi’: dialogo o violenza?
Lo domanda anche Elania con un sorriso amaro sulle labbra: “La crisi va avanti già da qualche anno. Adesso siamo al limite. Quindi cosa fai? Continui col dialogo o proponi la violenza? Io sono in Italia da sei anni. Mia sorella Maria è arrivata poche settimane fa. Abbiamo preso entrambe l’aereo per Roma. Ed entrambe ci siamo spostate a Pavia.”
Prima di atterrare in Italia, Maria in questi ultimi mesi ha tenuto le prime file dei cortei di Caracas. Ultimamente però il pericolo di essere arrestati si era fatto più forte. “Gli scontri, le violenze, sono una scusa per reprimere l’opposizione con arresti o proiettili.” Appena arrivata ha fatto domanda per lo status di rifugiata politica. “La violenza – spiega Maria – lentamente s’insinua per le nostre strade. Andrebbe combattuta col dialogo, ma a dire il vero, senza l’attenzione e l’appoggio internazionale, la risposta violenta sembra essere inevitabile.”

Tra la classe media e quella povera, a Caracas c’è ormai pochissima differenza. Lo stipendio mensile di un insegnante è di appena 30 dollari. La povertà sbarra e distrugge le saracinesche dei negozi; uccide i bambini, diffonde la malaria, il dengue e la chikungunya; dispone lunghe file di otto dodici ore per comprare solo alcune forme di pane. La povertà di Caracas e del Venezuela tutto assume tantissime forme. Una tra quest è la tessera di razionamento del cibo. Maria mostra delle foto in cui sono intrappolate lunghe file di persone. Alcune hanno dei numeri in mano. “Da quando le quotazioni del petrolio sono andate via via crollando come un castello di sabbia, il governo di Maduro ha disposto il cosiddetto Programma Clap: le forze armate, periodicamente, distribuiscono una busta di prodotti base a prezzi già fissati. La gente sopravvive così.” Poco cibo, file che durano giornate intere. I black out, tra un turno e l’altro, paralizzano le città. “Puoi mangiare quando lo decidono loro. Oppure vai al mercato nero. E lì le cose costano. Comunismo? – chiede Maria guardandosi intorno – Non esiste nulla di tutto questo. O almeno non parliamone adesso, perché il comunismo, il socialismo, il chavismo sono formule non attuali. Adesso per le strade di Caracas c’è anarchia. E l’anarchia è tutt’altro. Uccide.”sos

Prima dell’arrivo di Hugo Chavez, predecessore dell’attuale presidente Nicolàs Maduro, al Palazzo de Miraflores la politica Venezuelana era in balia degli interessi statunitensi. I politologi pensando a quei tempi parlano di ‘governi clienti’. Tra la fine degli anni 80 e il ’98 (in quest’ultimo anno Chavez vinse le elezioni), il governo sottoscrisse alcuni programmi di privatizzazione delle risorse naturali, misure di svalutazione e programmi di austerity che produssero restrizioni alle politiche economiche e disordini come il famoso ‘Caracazo’ dell’89, anno in cui fu applicato il tanto atteso programma di austerity USA-FMI (Fondo Monetario Internazionale). Non cambiava nulla: gli Usa bocciarono qualunque politica pubblica del governo; i prezzi del petrolio restarono minimi e la Cina, che presto sarebbe diventata la più grande partner economica del governo di Caracas, non era ancora una potenza sul mercato mondiale. “La figura di Chavez,- spiega Maria – rappresentava la salvezza per la maggior parte della classe medio-povera solo all’inizio. Se prometti, i ranchos (quartieri poveri, ndr) ti sostengono sempre.” Vincendo le elezioni del ’98 e la ritrosia venezuelana a ribellarsi all’imperialismo americano, Chavez cambiò la costituzione, stipulò accordi con la Russia, col Brasile, con Cuba, con l’Argentina. Rese il Venezuela un paese ricco, ma solo momentaneamente. Basandone la politica economica unicamente su una sola ricchezza, il petrolio, ha fatto sì che il Paese continuasse a dipendere dalle esportazioni straniere. A pochi mesi dalla sua morte, ‘il salvatore bolivariano’ assistette ad una forte destabilizzazione dettata da un terrorismo extraparlamentare che poco alla volta gettò il Venezuela in una forte insicurezza pubblica. Gli affaristi, sostenuti dai conservatori e da Washington, presero a fare incetta dei prodotti indispensabili provocando riduzione dell’offerta e malcontento generale. I molti gridano che fosse colpa del finanziamento americano ai gruppi paramilitari, ai partiti, ai funzionari, ai dirigenti di imprese commerciali di produzione e distribuzione dei beni di consumo essenziali. Maduro, arrivato nel 2013, dovette imbattersi in gravi problemi macroeconomici da tempo prevedibili.
“La guerra civile per Caracas è come un selfie in una vecchia sceneggiatura. Dire di amare il popolo, le fasce più povere, non basta. Bisogna saperlo fare. E se non vuoi andare, se non lasci spazio alla democrazia, qualcuno ti caccerà via. Dobbiamo liberare il Venezuela”.

di Carmelo Sostegno

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*