Responsabilità individuale e disturbo mentale: chi è colpevole di un delitto?

TRE GIORNI DI CONVEGNO ALL'UNIVERSITA' DI PARMA PER IL CONFRONTO TRA DIRITTO, NEUROSCIENZA E FILOSOFIA

Phineas-GageQuando una sbarra di ferro gli attraversò il cranio, Phineas Cage era un giovane operaio del Vermut. Era il 1850 e quella scena passò alla storia come fra le più famose dell’ottocento perché pochi minuti dopo l’incidente il giovane Cage si rialzò in piedi. Non era morto, anzi due mesi dopo risultava fisicamente guarito. Ciò che cambiò radicalmente fu il suo carattere. Da sempre gran lavoratore, educato, gentile, Phineas Cage diventò intrattabile, blasfemo, irriconoscibile da amici e parenti. La sbarra di ferro – venne scoperto successivamente – aveva asportato la parte del cervello che consente di controllare le proprie azioni e comprenderne il valore.
Da quel momento in poi chi sarebbe stato responsabile degli atti del signor Cage? Sarebbe stato sempre lui?

Il Convegno internazionale ‘Neuroscienze e diritto: implicazioni e prospettive’, al Palazzo Centrale dell’Università di Parma dal 5 al 7 ottobre e organizzato dal Centro Universitario di Bioetica e dal Centro Studi in Affari Europei e Internazionali, ha tentato di dare risposta a questo e a tanti altri quesiti avvicinando due delle più affascinanti branche del sapere: la neuroscienza cognitiva e il diritto, lo studio del cervello e l’applicazione della legge.
Un obiettivo di non poco conto – tanta la strada ancora da percorrere – e in merito al quale, oltre ai numerosi docenti universitari parmigiani e non, sono intervenuti personalità di rilievo internazionale: il professor Giacomo Rizzolatti (neuroscienziato a cui si deve la famosa scoperta dei neuroni a specchio), Amedeo Santosuosso, magistrato e docente dell’Università di Pavia e il filosofo Mario De Caro, docente dell’Università Roma Tre.

DSC_1192“SE L’UOMO E’ IL SUO CERVELLO, UN CRIMINALE E’ BUONO O CATTIVO? “- Il diritto penale è uno dei campi più coinvolti in questa immatura relazione tra neuroscienza e diritto.
I comportamenti umani sono molto complessi, ogni giorno le strade del mondo ne fanno da teatro, e dietro questa complessità si nasconde un’intensa attività neuronale. Ma non solo.
Il nesso che lega neuroscienza e diritto penale s’instaura chiaramente quando i comportamenti dell’uomo esorbitano la sfera della legalità, diventando reati: “Come può aiutare la neuroscienza a spiegare le cause di un delitto? – domanda il professor Giacomo Rizzolatti – Come spiegare, con le tecnologie a nostra disposizione, ciò che sta dietro un atto efferato? Se il soggetto X commette un omicidio, ma si accerta, attraverso una risonanza che il suo lobo frontale (la parte del cervello che agisce quale ‘freno’ delle nostre azioni, ndr) è leso, è sempre lui a uccidere o si può dire sia qualcun altro?”
La convinzione che la neuroscienza possa darvi risposta definitiva in ogni situazione è una finzione riconosciuta anche dal magistrato Amedeo Santosuosso. Secondo lui “dietro a ogni atto non vi è solo l’attività neuronale strettamente intesa, ma anche tutto un insieme di fattori diversi, come l’ambiente in cui cresci, in cui vivi”. Per questa ragione il nesso più stretto tra i mondi della neuroscienza e del diritto verrebbe a proporsi non già nella fase d’indagine, ma di reclusione, cioè quel momento successivo di rieducazione del detenuto.
Il rischio in cui si può altrimenti imbattere è la ‘neuromania’, una sorta d’euforia incontrollata verso la neuroscienza che indurrebbe a condannare un soggetto per il solo fatto di riportare dei traumi cerebrali; significherebbe “sconfessare i concetti di responsabilità e di scelta libera volontaria, assai fondamentali nel diritto penale.”

UNO SCHERMO PUO’ SPIEGARE I NOSTRI COMPORTAMENTI – 
L’utilizzo delle tecnologie fornite dalla neuroscienza cognitiva è senz’altro un valore aggiunto nei processi penali, ma va controllato. “Sono le cosiddette tecniche di neuroimaging: l’elettroencefalogramma (EEG), la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Quest’ultima, in particolare, la più affidabile”- precisa Rizzolatti.
Il metodo della fMRI, da cui prendono vita vere e proprie neuroimmagini, è basato sull’analisi dell’aumento del flusso sanguigno nel sistema vascolare neuronale del cervello. Una scansione dell’attività cerebrale consente di osservarne le possibili variazioni e così comprendere le ragioni di un comportamento. Tutto dipende dal tipo di area del cervello attivata. In questo modo è addirittura possibile riscontrare la verità di una determinata dichiarazione. IMG_8671

Nel sistema penale italiano l’ammissione delle prove scientifiche è volta per un verso all’accertamento dell’incapacità dell’imputato, cioè la sussistenza di un vizio totale o parziale di mente, articoli 88 e 89 del codice penale, per l’altro verso per la valutazione dei fatti come riportati dall’imputato o dai testimoni. Il loro contributo è rilevante, sempreché venga ricordato che è il giudice a disporne le regole per la corretta acquisizione. “Ciò che non dobbiamo dimenticare – sottolinea Paolo Ferrua, docente dell’Univesità di Torino – è la presenza di un giudice. Sarà lui a valutarne sempre la necessità. Le prove scientifiche, benché di grande supporto, non vanno lasciate ‘libere’. Significa che esse sono sì utili, ma non sempre dicono la verità”.

LA RESPONSABILITA’ MORALE E’ UN ILLUSIONE?- Degno di nota anche l’intervento del professor Mario De Caro: “E’ indubbia l’esistenza di una interazione tra filosofia e ricerca scientifica perché spesso c’è una causa biologica dietro i delitti, anche quelli più efferati”.
Un famoso caso americano, ad esempio, riporta come la pedofilia possa essere ingenerata da un tumore al cervello. Nel caso esaminato, un pediatra americano ‘diventava pedofilo’ proprio al momento della ricomparsa del tumore. Una volta esportato il tumore gli istinti venivano meno.
La domanda posta nel corso del dibattito è se questo tipo di soggetto debba essere punito o meno. Secondo De Caro è difficile capirlo; così come è difficile dire che non esista una responsabilità morale. “Non siamo sul punto di dire che noi non siamo mai responsabili. Si tratta di capire cosa significa originare un azione. Io potrei essere in una situazione in cui capisco la rilevanza morale delle mie azioni, tuttavia sono nell’impossibilità di decidere liberamente.” E’ necessario essere sensibili alle ragioni morali dunque, ma questo non è sufficiente per il libero arbitrio. “Un soggetto è moralmente responsabile se poteva fare altrimenti, cioè se in quel momento l’agente ha la capacità di intendere e di volere. Lì possiamo considerarlo responsabile anche moralmente.”

 

di Carmelo Sostegno

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